Un cavallo di Troia chiamato Fininvest

di Franco Debenedetti


«Perché Berlusconi non vende le sue televisioni?» si scriveva su queste colonne nel numero di maggio, analizzando le ragioni per cui al Berlusconi imprenditore sa­rebbe convenuto, sul piano economico, mettere in vendita le sue antenne. E si concludeva che Berlusconi non vende, non perché ciò sia in contrasto con i suoi interessi economici, ma nonostante che ciò probabilmente lo sarà.

Da allora a molti ho ripetuto la stessa domanda: alcuni hanno obiettato che non ci sarebbe compratore; ma è di qualche giorno fa la notizia che in In­ghilterra è stata indetta la gara per la concessione di un’altra rete generalista via etere. E questa obiezione viene a ca­dere.

Altri hanno suggerito una spiegazione di tipo psicologico: Berlusconi non se la sentirebbe di “tradire” le persone con cui ha costruito il suo impero finanzia­rio. Ma ciò equivale ad ammettere espli­citamente l’incapacità psicologica del Presidente del Consiglio di decidere in materie in cui emerga conflitto di inte­ressi.

E’ ora possibile fare un consuntivo del prezzo politico che Berlusconi ha già pagato per non aver voluto risolvere il problema del conflitto di interessi. I mo­menti più critici per il suo Governo so­no stati quelli di scontro con la magi­stratura: il decreto “salva-amici” e la se­guente cena di Areore, che l’ha obbliga­to alla seduta notturna a Montecitorio: e la vicenda innescata dall’intervista di Borrelli. Anche se un’eventuale vendita non avrebbe il potere di amnistiare eventuali illeciti a carico di Fininvest e dei suoi amministratori dell’epoca, é chiaro che la separazione di Berlusconi dalle sue proprietà aziendali avrebbe di molto ridotto la dimensione del bersa­glio e la sensitività politica del proble­ma.

Stessa cosa lo scontro sulle decisioni del Consiglio Rai: che rimangono quello che sono sul piano culturale e gestiona­le, ma che risultano particolarmente in­tollerabili per la “bulgarizzazione” di tutto il sistema dell’informazione televisiva che ne consegue.

Il conflitto di interessi é costato a Berlu­sconi anche la prima sconfitta in Parla­mento, quando é stato bocciato il decre­to che prorogava i diritti di autore: fatto in sé minimo ma che diventa significati­vo sul piano simbolico.

Ma il prezzo più salato Berlusconi lo sta pagando sul piano politico: é il conflitto di interessi che offre a Bossi le munizio­ni più efficaci per le sue incursioni. La libertà di manovra del capo di questa maggioranza ne esce enormemente ri­stretta e condizionata. Tra i suoi due al­leati maggiori, Berlusconi é obbligato ad appiattirsi sempre di più su quello più strutturato, politicamente ed orga­nizzativamente; quindi é costretto ad ac­centuare sempre di più la sua polemica con le opposizioni, a governare con i to­ni e i temi della campagna elettorale, precludendosi quindi la possibilità di mantenere le promesse. E si pensa non tanto a quelle del tipo del milione di po­sti di lavoro, la cui natura menzognera appariva chiara a qualunque osservatore appena critico, quanto alle promesse di introdurre riforme di tipo liberista, a cui molti elettori avevano prestato fiducia. Basta guardare che cosa sta avvenendo della più emblematica delle liberalizza­zioni, quella che avrebbe dovuto essere innescata dal processo di privatizzazio­ne: gli uomini di An occupano posizioni chiave, ed i vertici delle aziende priva­tizzando trovano in An i più sicuri allea­ti perché tutto (ivi compreso il loro po­tere) rimanga com’è. E un discorso ana­logo si potrebbe fare per l’altra promes­sa del Berlusconi candidato, quella del “buon governo”, della riforma della Pubblica Amministrazione: che non si potrà neppure iniziare senza toccare gli interessi di un ceto sociale che é tra le più preziose “riserve di caccia” di Fini. Non é neppure necessario continuare: lo stesso Ferrara, non un ministro qualsia­si, ma l’incaricato del più delicato tra tutti i rapporti, quello col Parlamento, trova necessario intervenire sull’argo­mento in una lettera aperta al suo Presi­dente del Consiglio. Fatto clamoroso, che probabilmente non ha precedenti nella storia non solo della nostra Repub­blica.

Allora è impossibile non porsi la do­manda: ne vale la pena? Domanda alla quale non ci sono che due risposte: o Berlusconi non é stato in grado di valu­tare i prezzi politici che avrebbe dovuto pagare, ed allora dovranno definitiva­mente ricredersi quanti ancora pensano che, lavorando e imparando, riesca a far venir fuori la stoffa dell’uomo di Stato. Oppure il controllo di tutto il sistema dell’informazione televisiva é il vero cardine della politica berlusconiana. In questo caso si potrebbe davvero invoca­re la spiegazione psicologica: ma non già per rimandare ad un Berlusconi sen­timentalmente legato al suo passato, bensì ad un Berlusconi cui proprio l’e­sperienza imprenditoriale e il successo (ed il modo di raggiungerlo) hanno radi­cato la convinzione dell’inarrestabile potere dei media.

Tanto inarrestabile da non avere neppu­re bisogno di mostrare i muscoli. L’os­servazione di Adornato, (ripresa da Pre­viti) secondo cui il successo di Berlu­sconi non é dovuto all’uso delle reti te­levisive, spiega (forse) quanto é avvenu­to in campagna elettorale. Ma il fatto che questa maggioranza si regga sulla minaccia che le televisioni potrebbero essere utilizzate tutte (ora che anche la Rai é stata normalizzata) in una futura campagna elettorale, é ciò che ormai condiziona tutta la vita politica. Con ciò non si intende concordare con chi pensa che questo sia già un regime: ma non sapere irrevocabilmente rinunciare alla possibilità che lo diventi, è la più chiara.

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