C’è una deriva macro, in Italia e dintorni. (Sarà perché i fattori “macro” non richiedono riforme strutturali?). L’idea che questa sia una crisi da domanda, che a provocarla siano l’austerità e l’idolatria del pareggio di bilancio; che queste abbiano prodotto anche la sopravvalutazione dell’euro, mentre solo la sua svalutazione varrebbe ad annullare lo svantaggio competitivo accumulato; che per far ripartire la crescita basterebbe che la Bce comperasse senza sterilizzarli i debiti emessi superando il 3%; che un taglio secco del debito ci permetterebbe di trovare nei bilanci pubblici le risorse per politiche espansive. In vista di Jackson Hole, interventi in questo senso si erano moltiplicati quasi ad avanzare suggerimenti e anticipare sostegno a quello che i banchieri centrali avrebbero potuto dire. È successo che invece Janet Yellen e Mario Draghi mettessero al centro dei loro interventi un tema tipicamente “micro”, la disoccupazione strutturale: come misurarne l’entità, comprenderne la cause, combatterne gli effetti.
Chi sperava di sentire la replica del «whatever it takes» sotto forma di impegno ad acquistare grandi quantità di titoli dei paesi più indebitati, ha sentito ribadire la fiducia nell’efficacia dei prestiti alle banche condizionati al finanziamento di imprese. Chi sperava di trovare inviti a interpretazioni elastiche dei vincoli di bilancio, si è visto ricordare che «i livelli di spesa e di tassazione nell’area dell’euro sono, in proporzione al Pil, tra i più alti del mondo» e che questo costituisce un limite endogeno a quello che la politica fiscale può fare accanto alla politica monetaria. Chi voleva flessibilità di bilancio ha trovato una lezione sulla flessibilità dei salari, corredata di confronti tra come sono stati diversamente implementati in Irlanda e in Spagna, e col rituale riconoscimento all’insieme di misure adottate dalla Germania. Chi si aspettava misure per la crescita si è visto ricordare i «positivi effetti anche nel breve termine se le tasse sono ridotte in quelle aree dove il moltiplicatore fiscale di breve termine è più alto, e le spese tagliate nelle aree improduttive in cui il moltiplicatore è più basso» (ed è stato invitato a leggersi il paper di Alesina, Favero e Giavazzi).
Un discorso, quello di Draghi, tecnicamente raffinato e politicamente equilibrato. Si leggano le conclusioni. Al primo posto dichiara che «la flessibilità già prevista dalle regole esistenti potrebbe essere usata per meglio sostenere la debole ripresa e per fare spazio al costo per le necessarie riforme strutturali»; al terzo che «in parallelo potrebbe essere utile una discussione sulla complessiva politica fiscale dell’area euro». Al secondo posto i benefici di tagli di tasse finanziati con l’eliminazione degli sprechi; al quarto quelli di «un grande programma di investimenti pubblici, coerente con la proposta del nuovo presidente della Commissione».
Se i giorni precedenti Jackson Hole avevano stimolato gli economisti a suggerire a Draghi quello che avrebbero voluto, il day after ha visto gli uffici stampa, soprattutto di Renzi e Hollande, cercare di appropriarsi di quanto potesse tornare utile. Col risultato di suscitare preoccupate reazioni in Germania. Forzati i primi, esagerate le seconde. Quando Draghi dice che «bisogna agire sui due lati dell’economia, le politiche di domanda aggregata devono essere accompagnate da politiche strutturali nazionali», non ha molto costrutto fare il tiro alla fune su come interpretarne le parole. Quanto all’auspicio che si possa discutere la complessiva politica dell’area euro, è arbitrario sia dire che Draghi appoggia la richiesta di flessibilità sia che di fronte ad essa “tentenna” (come titola la Frankfurter Allgemeine Zeitung). E quanto ai 300 miliardi di investimenti promessi da Juncker poteva forse sollevare obbiezioni? Dopotutto non si tratta di politica monetaria, non riguardano la Bce i criteri con cui gli stati si accolleranno le garanzie, sceglieranno e ripartiranno gli investimenti e quanto essi renderanno. E poi, partissero oggi, va già bene se entro il 2016 si vede il primo euro.
Non è certo colpa di Draghi se, come teme la Faz, «l’eurozona è minacciata da un’orgia di debito». Quanto a noi, la minaccia che incombe è che, tornando (metaforicamente) da Jackson Hole, si sia sommersi da un’orgia di discorsi macro. Come antidoto, sia consentito ricordare una realtà davvero micro: quella delle nostre Micro Pmi, strangolate da una pressione burocratica e fiscale che non accenna a diminuire, da parte di uno Stato efficiente solo nel chiedere. Le Micro Pmi dànno impiego per l’81% dell’occupazione totale, producono il 71,3% del valore aggiunto, contribuiscono al 54% delle esportazioni: ma il credit crunch, unito ai requisiti di vigilanza, le sta soffocando. Quanto dei pagamenti arretrati della Pa è effettivamente andato a finire nella loro disponibilità e non a ridurre altri debiti? Speriamo che funzioni davvero con i mille miliardi che Draghi ha confermato di voler prestare alle banche condizionati all’erogazione di credito alle imprese: è probabile che sappiano molto meglio delle commissioni governative dove investire.
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agosto 27, 2014