Torino è la sede dell’unica grande industria rimasta nel nostro Paese. Può sembrare paradossale, invece partire da questa considerazione non lo è affatto. In Italia c’è una grande industria di servizi, Telecom, ci sono grandi banche e assicurazioni, c’è una grande industria nel settore petrolifero, l’Eni, ma se intendiamo industria nella sua accezione originaria di impresa manifatturiera, alla fine del nostro secolo – e al compimento dei suoi cent’anni, l’anno prossimo – resta solo la Fiat e Torino ha il privilegio di essere la sede di questa singolarità.
Chimica, farmaceutica, informatica, militare, trasporti, energia: in questi anni in tutti questi settori imprese private italiane medie e grandi sono andate per aria. E stato il risultato di una politica che per cinquant’anni, nel secondo dopoguerra, ha considerato nella vita delle imprese il «grande» naturalmente appannaggio delle industrie di Stato, e che al privato ha invece lasciato libertà nel «piccolo». Il «piccolo» ha trionfato nell’impresa privata non solo e non tanto perché risponde meglio alla flessibilità dei mercati così necessaria al nostro modello di crescita export led e fino a ieri drogato da svalutazioni competitive: ma perché l’imprenditore «piccolo» condiziona meno la cabina di regia politica.
La Fiat è sopravvissuta a questa politica. Non che non abbia corso seri rischi: ma nel 1980 il segnale di riscossa che venne da Torino, ai tempi di Berlinguer ai cancelli della Fiat occupata e della successiva marcia dei quarantamila, fu anche il segnale di riscossa per il sistema delle imprese italiane.
Oggi, la cosa più utile che si può fare per la Fiat, è lasciarla libera di seguire l’evoluzione delle industrie del settore motoristico, sia come scelte tecnologiche che come alleanze proprietarie.
Le industrie si stanno smaterializzando: nel doppio significato della loro attività e del loro prodotto. E noi non possiamo più permetterci di rifare errori: nel doppio significato, ancora una volta, sia degli errori «dimensionali» della politica industriale prima richiamata, che di ingabbiare le nuove attività d’impresa in schemi mentali del passato.
Se l’Italia ha bisogno di un rinascimento industriale, Torino ha le caratteristiche per esserne l’epicentro, e le ha più di altre zone del Paese. Sarebbe la terza volta, per Torino: la prima fu allorché unificò il Paese con la sua struttura amministrativa e fiscale, con un processo alla cui testa fu la destra storica; poi allorché fu all’avanguardia della trasformazione dell’economia nazionale dall’agricoltura all’industria, processo di cui i 100 anni della storia Fiat sono emblematici.
Perché ancora una volta Torino potrebbe essere epicentro di modernità?
Innanzitutto per ragioni di «cultura materiale». La smaterializzazione dell’attività manifatturiera lascia infatti a Torino una cultura già predisposta: in termini di distanza culturale, l’agricoltura dista dalle magliette come il centro di lavoro a controllo numerico dista dai servizi sofisticati.
Poi per la sua dotazione attuale di «centri di eccellenza». Torino può oggi vantare infatti il centro mondiale del design automobilistico (e non solo), recentemente potenziato con il concorso congiunto di aziende private, del Politecnico (che a sua volta è primo in Italia) e Università. Può contare su servizi finanziari adeguati, grazie alla concentrazione a Torino di imprese bancarie e assicurative che ne hanno potentemente rafforzato l’importanza sulla piazza italiana e internazionale. Può far conto sulla vitalità di uno dei maggiori centri italiani di produzione di spettacoli sportivi, la Juventus, che come tutte le grandi squadre italiane di calcio andrebbe posta nella condizione di poter svolgere al meglio la propria attività di impresa creatrice di profitti, grazie a un intreccio di gestione di propri impianti, titolarità piena dei propri diritti televisivi e delle attività in franchising, che in Italia ancora la politica non riesce a concepire come la vera dimensione delle attività commerciali legate al grande sport.
Certo, la smaterializzazione delle attività passa attraverso assi e dorsali. E Torino ha ragione a pretendere infrastrutture che ne rompano l’isolamento geografico: l’alta velocità orizzontale verso Milano e verso Lione, collegamenti aerei adeguati. Ma è anche vero che la città – le sue istituzioni, in questo caso – deve smettere l’atteggiamento passivo di chi si limita a chiedere a Roma, o aspetta da altri ciò che risolva i suoi problemi. L’Alitalia o la British metteranno collegamenti su e per Torino se la città sarà un mercato promettente, assai più che per qualche concessione strappata a qualche tavolo amministrativo. Quando, pochi mesi fa, le autorità cittadine e regionali si sono invano battute perché Torino e non Napoli fosse la sede dell’Autorità delle comunicazioni, ebbi occasione di dire che tra i duecento occupati scarsi di un ufficio amministrativo e lo scatto di reni che per città e imprese avrebbe significato una scelta di cablaggio cittadino non affidata alla Telecom, era chiaro dove fosse la priorità di un’impostazione vantaggiosa e moderna. E non stava certo nel costringere il professor Cheli a venire a Torino.
Vero è che per questo nuovo ruolo la politica torinese dovrebbe compiere un salto di qualità. Sino a ieri (o a oggi?) la politica a Torino è stata troppe volte meccanica continuazione o trasposizione del rapporto di classe interno alla fabbrica: quindi o era antagonista o era favorevole, ma sempre subalterna. L’industria chiedeva luoghi dove impiantare officine, spazi per accogliere mano d’opera, trasporti per collegare le periferie alle fabbriche, tolleranza per la propria ingombrante presenza. E la politica mediava lo scambio: tutto si riduceva a chiedere un contributo privato ai costi delle infrastrutture (e in alcuni recenti anni magari anche un contributo occulto alle casse dei partiti). L’autonomia della politica era dimostrata di quando in quando con la puntura di spillo di qualche fornitura negata. O con il fiancheggiamento alle grandi proteste della manodopera.
Oggi, per questa subalternità mercatoria della politica verso l’impresa, non c’è più spazio. Ci vuole un cambiamento di cultura. Le rivoluzioni richiedono una concentrazione totale sull’obiettivo, una capacità di coinvolgere e mobilitare. Anzi, di travolgere.
Il primo passo da compiere è quello di liberarsi dai cascami ideologici e dalle cattive abitudini. Il pubblico deve cioè spogliarsi della presunzione e della tentazione di fare in prima persona. Anche a Torino, è forte tentazione del pubblico di mantenersi proprietario delle aziende di servizi. Ma questa tentazione denuncia la propria incapacità di limitarsi a fissare obiettivi. Denuncia la propria incapacità di scrivere e far rispettare i contratti il pubblico che pensa di proteggere i propri interessi restando nei consigli di aziende privatizzate.
E questo è solo il primo passo: non basta sgombrare il terreno, bisogna costruire. E per costruire, per trascinare e coinvolgere pubblico e privato, bisogna vendere» un progetto. Le istituzioni possono e devono essere il catalizzatore.
A Torino (in Piemonte) si può provare a dimostrare che cosa può concretamente fare una politica che ponga la creazione di imprese come suo esplicito scopo: unico, maniacalmente perseguito, prioritario rispetto a tutti gli altri.
«Prioritario» significa concretamente: che si dedica più tempo ad ascoltare, parlare, pensare per le imprese che a tutto il resto; che si antepongono le esigenze delle imprese a quelle dei sindacati o degli impiegati del Comune; che se serve vendere la Mole, si vende la Mole: non solo ovviamente, l’Azienda elettrica municipale o Caselle; che si deve passare più tempo a cercare di attirare un’impresa nuova che ad andare a Roma per conferire con ministri e presidenti; che si considera più importante formare uno staff di consiglieri tecnici che nominare presidenti o consiglieri di enti locali. In Baviera, Edmund Stoiber ha a sua disposizione un gruppo di tecnici più numeroso e qualificato di quello di cui dispone non solo D’Alema, ma anche Clinton. Perché questi consiglieri e tecnici – è il segreto del successo bavarese – parlano continuamente e sistematicamente con le imprese: giornalmente e personalmente. E ricordiamoci che in Baviera entro il 2000 il 50 per cento dei docenti universitari sarà cambiato rispetto a dieci anni fa, ingaggiandoli con stipendi di mercato in giro per il mondo. Tanto che stanno arrivando 4.000 studenti giapponesi.
Perché Torino non resti ancorata al paradosso di essere sede dell’ultima grande industria privata, tocca insomma alla politica muovere il primo passo: è la politica che deve recuperare per prima un deficit di credibilità. Tutti credono che Pininfarina sia in grado di fare una vettura bellissima, e Ferrero le migliori merendine: ma nessuno crede ancora fino in fondo che il Consiglio comunale di Torino abbia messo da parte i pregiudizi ideologici e sia capace – tanto per fare un esempio – di sedurre Yahoo! perché metta una sede a Torino, e di dargliela in pochi giorni. Tocca alla politica dimostrare che ha capito e che ci crede. Ci sono tanti posti dove aprire imprese al mondo: bisogna dunque sapersi guadagnare il privilegio di essere scelti.
dicembre 17, 1998