C’è nell’aria odor di soldi, come mai prima d’ora: Recovery Fund, BCE, Banca d’investimento europea, SURE MES. Mariana Mazzucato confida a Repubblica il suo entusiasmo: “Ora uno Stato imprenditore, che decida dove investire! E’ l’occasione che abbiamo per trasformare l’economia italiana”. E poiché, fa osservare, è questa la ragione per cui Conte l’ha chiamata a febbraio” e poi, aggiungiamo noi, ha detto a Vittorio Colao di metterla nella sua task force, le appare l’occasione della sua vita: lo stato imprenditore, e con tanti soldi! E tutti soldi liberi, senza condizionalità, anche quelli del MES, che ci han pensato gli amici dei Cinque Stelle a fargli l’esame del sangue, e se ne trovavano una traccia facevano cadere il governo. Arrivati che saranno in cassa, ci penserà lei a mettere le condizionalità. Le aziende “prima le si aiuta, mettendo le clausole che rispetteranno, per esempio come e su che cosa investiremo”: poi ci sarà lo Stato “che agisce in simbiosi con le imprese, indirizzando e coordinando investimenti e iniziative e che dimostra di avere una strategia, una visione di quale economia viviamo”.
In tempi normali, chi conosce la Mazzucato, sapendone in anticipo il contenuto, l’intervista manco l’avrebbe letta. Ma in tempi difficili questi propositi (o spropositi) fanno danni. Pensiamo a un medio industriale, diciamo uno con 250 operai: con quale spirito si mette a riparare ai danni di questo terremoto, se si sente dire che avrà dietro la spalla uno Stato che “indirizza e coordina investimenti e iniziative” e che gli vuole imporre la sua strategia e la sua visione. Nella migliore delle ipotesi, penserà rassegnato che alla fine saranno solo moduli da riempire.
Forse la professoressa Mazzucato dovrebbe studiare come è fatta l’Italia che produce. Le grandi industrie, pubbliche e private, le loro strategie le hanno: le FCA, TIM, Luxottica, Barilla, Ferrero, citando a caso, non sarà lei a fargli cambiare strada; figuriamoci con Enel, ENI, Finmeccanica. Un gradino sotto ci sono le cosiddette multinazionali tascabili, quelle che ci hanno tenuti a galla in questi anni: quelle le lezioni di strategia non le ricevono, le danno, perfino alla Germania, che avevano battuto come crescita delle esportazioni.
All’altro estremo ci sono le aziende con meno di 10 dipendenti, occupano il 45% dei lavoratori, sono la forza e la debolezza dell’Italia: la forza perché sono l’espressione delle caratteristiche di inventiva, di micro-imprenditorialità, di indipendenza che tutti ci invidiano: ma hanno una bassa produttività. Mentre per le aziende con più di 10 dipendenti la nostra produttività è superiore a quella tedesca, per quelle con meno di 10 siamo sotto di un terzo. Questa è una delle ragioni per cui noi cresciamo di meno. Ci han provato in tanti a convincerli a fondersi, e poi assumere un laureato: vuol provarci la professoressa, spiegandogli la “visione di quale economia noi vogliamo”?
A realizzare quella visione la Mazzucato vorrebbe che fosse lo Stato imprenditore. Ma, ammesso e non concesso, che lo Stato sappia quale economia vuole, è sicura che la sappia realizzare? Fin che si tratta di sostituire il vertice di una banca che ha salvato, come è stato dopo la crisi del 2008, non c’è bisogno di grandi visioni, basta il buon senso. Nel passato recente, non son mancate allo Stato le occasioni di realizzare visioni: per portare la banda larga nei “fantomatici (sic) fallimenti di mercato”, ha fondato Openfiber, ha messo dei soldi: ma l’azienda è in ritardo di 3 anni sul suo programma, e la fibra sovente si ferma su un palo a 50 metri dalla casa. Ed è grazie a TIM e a Fastweb se oggi lavoriamo e facciamo riunioni in pieno lockdown, dobbiamo dire grazie web.
Oppure prendiamo la Sanità: è tutta pubblica, ne fanno parte anche le strutture gestite da privati. Se da noi è stata un’ecatombe di medici e operatori sanitari, mentre in Germania non è morto neppure un medico, pare dipenda dalla disponibilità di strutture di emergenza: erano adeguate ai piani di emergenza da pandemia che pure esistevano? Gestire tamponi e mascherine non pare richieda “visioni” o competenze da rocket science: perché da noi il risultato è la horror story raccontata a Milena Gabanelli del Dataroom sul Corriere di lunedì 27? Nell’attesa che arrivino i soldi dall’Europa, aziende che con la chiusura sono diventate illiquide si rivolgono alle banche, a cui lo stato ha assicurato garanzia back to back fino a un certo massimale. Ma le aziende non hanno visto ancora un euro, perché alle banche si chiedono procedure interminabili: è meglio controllare la visione o la strategia?
Il corso di economia che la professoressa insegna comprende di certo la teoria del costo dell’informazione. Tutte le aziende, grandi e piccole sono depositarie delle informazioni. che gli servono, su concorrenti e clienti, sulle materie prime da acquistare e sul modo di lavorarle. E’ il loro capitale immateriale, se lo sono costruito lavorando. Non sanno tutto di tutti, ma hanno le informazioni che servono, se ne vogliono di più sanno come procurarsele. Quanto costerebbe a governi e loro rappresentanti acquisire quelle informazioni? E se non le hanno, che visione, che strategia gli possono richiedere di implementare?
Lo Stato la propria visione e le proprie strategie le comunica con quello che fa. E di cose da fare ne ha tante: le ricerche di base, la sanità, la scuola, la giustizia. Già che si sta pensando al dopo, è proprio un sogno proibito quello di avere una burocrazia che faciliti e non ostacoli l’operare dei cittadini? Non sprechi soldi nel cercare di fare quello che non può sapere, e non li faccia sprecare nel non fare quello che dovrebbe saper fare. Perché quei soldi sembrano gratis, ma alla fine sono nostri. Non sarà elegante ricordarlo alla signora Mazzucato: ma proprio se lo è voluto.
intervista di Francesco Manacorda a Mariana Mazzucato, La Repubblica – 26 aprile 2020 «L’Italia deve tornare presto alla normalità per quel che riguarda le scuole, il lavoro, il tempo libero. Ma per l’economia non deve avere come obiettivo la situazione di prima, perché quella situazione era ricca di difetti. Lo Stato deve dare aiuti alle imprese subito, perché è ora che ne hanno bisogno, ma deve legarli a condizioni molto chiare. È una grande occasione per cambiare le cose». Mariana Mazzucato insegna all’University College London ed è celebre per le sue tesi sul ruolo dello Stato nell’economia. Oggi è tra l’altro consulente economica per il presidente del Sud Africa e sta lavorando con il Covid-19 Response Team del Vaticano. In Italia il premier Giuseppe Conte l’ha chiamata qualche settimana prima dell’emergenza Covid-19 per aiutare a disegnare lo sviluppo industriale del Paese, volendola poi anche nella task force dei 17 esperti guidata da Vittorio Colao che si deve occupare della cosiddetta “Fase 2”. Con la task force che cosa state disegnando per il futuro dell’Italia? Come deve muoversi lo Stato? A che cosa pensa esattamente? In un’emergenza si possono fare davvero queste distinzioni? Ma in Italia dove dovrebbe andare questa politica di indirizzo? Una posizione che le attirerà ancora una volta accuse di neostatalismo e di marxismo… La burocrazia italiana, non nota per la sua efficienza, riuscirebbe a prendere questo ruolo direttivo?
Mazzucato: “Ora uno Stato imprenditore che decida dove investire”
«Quello della task force è per ora un lavoro focalizzato soprattutto sul breve periodo: facciamo proposte su come gestire le riaperture e poi il governo decide. Più interessante ancora è per me pensare alle prospettive a medio lungo termine del Paese e all’occasione che abbiamo per trasformare l’economia italiana, cosa che peraltro si lega alla ragione per la quale Conte mi ha chiamato a febbraio».
«A livello europeo ho lavorato all’approccio “mission oriented”, cioè all’importanza di indirizzare gli investimenti pubblici e privati verso aree che possano catalizzare innovazioni a livello intersettoriale per affrontare questioni che vanno dalla crescita verde all’invecchiamento della popolazione. Si tratta di avere uno Stato con un ruolo catalizzatore con l’obiettivo di intercettare e indirizzare gli investimenti. In Italia, il problema è che la maggior parte delle imprese soffre di una certa inerzia e negli anni abbiamo perso grandi attori in grado di guidare le filiere produttive. Dunque, è il momento di attuare una politica industriale decisa che utilizzi gli aiuti pubblici per un cambio di direzione quanto mai necessario».
«In primo luogo a tutti i temi della “green economy”, ma anche ad aspetti di politica fiscale. In queste settimane, ad esempio, in Austria gli aiuti alla compagnia di bandiera sono legati all’impegno a ridurre le emissioni di anidride carbonica e la Danimarca ha deciso che non darà aiuti alle imprese che hanno sede dei paradisi fiscali».
«Ma io non dico che le imprese debbano convertirsi subito a una politica di riduzione delle emissioni o a qualche altro impegno. Per ora le si aiuta, mettendo fra le clausole che rispetteranno alcune regole, per esempio su come e cosa investire. È chiaro poi che il tavolo delle trattative per le condizionalità dovrà avere elementi diversi, a seconda delle specificità settoriali e del tipo di azienda (grande o piccola, privata o a partecipazione statale)».
«Spetta a ogni governo decidere, ma certo ci sono temi che sono sotto gli occhi di tutti: la necessità di andare sempre più verso una “green economy”, il divario tra Nord e Sud da ripianare, il divario digitale sia da un punto di vista sociale (tra individui) che economico (tra imprese), la piccola dimensione delle imprese che rischiano di non poter resistere a urti sociali e tecnologici. Oggi lo Stato dà già molto alle aziende, ma sempre sotto forma di sussidi e incentivi a pioggia per cercare di risolvere fantomatici fallimenti di mercato. Invece serve un ruolo imprenditoriale dello Stato, che agisca in simbiosi con le imprese, indirizzando e coordinando investimenti e iniziative e che dimostri di avere una strategia, una visione di quale economia vogliamo».
«Penso che lo Stato debba interagire con le imprese prendendo i suoi rischi come investitore ma ricevendo anche i suoi utili se le imprese, come è augurabile, fanno profitti e li reinvestono in crescita e innovazione. E che debba individuare quali siano le attività prioritarie per il Paese, come del resto stiamo vedendo in questo momento tragico quando si parla di “servizi essenziali”, primo fra tutti la sanità ed i suoi operatori. Non abbiamo mai sentito parlare di loro come “creatori di valore”, come spesso si è detto invece dell’industria finanziaria. Ma tutto dipende da come misuriamo la produttività e il valore. Se in termini solo monetari oppure no».
«L’estensione del golden power a una serie di settori considerati strategici va nella giusta direzione, così come aver dotato la Cdp di fondi per intervenire nelle aziende in crisi. Avere un “capitale paziente”, che stia nelle imprese e non spinga per risultati immediati, come spesso fanno gli investitori finanziari, è cruciale per far crescere un Paese e limitare la finanziarizzazione del sistema produttivo. Ma certo, bisogna investire anche sulla macchina pubblica: ci vogliono meno società di consulenza e più capacità di rendere più competente, dinamica e sicura del suo ruolo la pubblica amministrazione. È tempo di riscoprire che la nostra economia ha tutto da guadagnare da uno Stato imprenditore. I Paesi che hanno risposto meglio alla crisi pandemica come Germania e Corea del Sud ne sono una prova lampante».
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