di Luigi Zanda
Domanda del senatore pd: il federalismo demaniale verso cui andiamo è compatibile con l’alienazione del patrimonio statale?
Al direttore.
Sul Foglio di lunedì lei affronta il problema dei problemi, quello del nostro mostruoso debito pubblico. Non scioglie però il nodo del rapporto tra debito pubblico e federalismo. E cioè se il debito pubblico di uno stato che si trasforma da unitario in federale non debba essere imputato, almeno in parte, alle regioni che hanno concorso a formarlo. Cosa deve fare un paese con un debito spaventoso, pari al 118 per cento del pil, per ridurlo consistentemente e, nel contempo, finanziare una spesa qualificata (precondizione di ogni politica di crescita) e aiutare la circolazione di capitali privati agganciandoli “a una strategia della ripresa”?
Nel 2008, quando Berlusconi vinse le elezioni conquistando la più ampia maggioranza parlamentare dell’Italia repubblicana, il nostro debito era stato abbattuto – da Prodi e Padoa Schioppa – al 105% del pil. Poi è velocemente risalito fino a toccare oggi il record del 118%.
Le possibili opzioni per ridurre il debito pubblico sono quattro:
1. Dichiarare, come l’Argentina, l’insolvibilità. Nessuno può pensare per l’Italia a un’ipotesi simile.
2. Pianificare rigide politiche di bilancio per venti o trent’anni al fine di ridurre, anno dopo anno, il debito pubblico. E’ la strada che l’Italia ha faticosamente cercato di seguire negli ultimi due decenni, senza successo. Siamo riusciti al più a controllare il deficit. Dai primi anni 90, il nostro paese brucia all’incirca 70 miliardi di euro all’anno in interessi senza riuscire a intaccare, neppure in minima parte, il debito. Anzi, dal 1992 ad oggi si è impennato di 13 punti percentuali (105-118%). Questa strada in Italia non basta.
3. Alzare le tasse. Anche questa per noi non è la soluzione. Sugli italiani grava una pressione fiscale gigantesca, ai massimi livelli delle democrazie evolute. Nessun governo serio può pensare di diminuire il debito pubblico alzando ulteriormente le tasse. Senza contare che Berlusconi e Tremonti hanno raccontato agli italiani di voler diminuire le tasse, non di volerle aumentare.
4. Arriviamo al nodo, alla proposta di Giuliano Ferrara: “Vendere, vendere, vendere”. E, va da sé, vendere con intelligenza. Questo significa, per esempio, evitare di vendere scorporandoli solo i pezzi più pregiati, lasciando a carico della collettività ciò che vale meno e che nessuno vuol comprare. Dunque l’ipotesi di vendere il nostro patrimonio va considerata molto seriamente. Ma se si vuole uscire dall’astrattezza, occorre rispondere a una domanda preliminare: il federalismo che l’Italia sta costruendo è compatibile – e se lo è in che modo – con l’ipotesi di ridurre il debito pubblico vendendo il patrimonio dello stato? E’ compatibile con il federalismo demaniale che attribuisce alle regioni importanti beni dello stato?
Scriveva Giuseppe Guarino a metà degli anni 90: “Vi sono oneri cui non ci si può sottrarre. Il debito pubblico riguarda tutti”. Come riguarda tutti lo squilibrio che quel debito ha prodotto tra i diversi territori del nostro paese. La politica della spesa ha avuto un impatto diseguale nelle diverse regioni. In alcune sono state realizzate più strade, autostrade, scuole, università, ospedali,si è investito di più in porti e aeroporti, difesa del suolo, ferrovie, riqualificazione urbana.
Investimenti che hanno concorso a creare parte del debito e a squilibrare il paese. E’ possibile che vendere il patrimonio dello stato sia l’unica possibilità per ridurre il debito e liberare risorse necessarie agli investimenti in tempi ragionevoli. Ma prima di spingersi oltre nell’analisi, va definito verso quale modello di stato l’Italia debba andare. Una cosa è una Repubblica unitaria. Altra è uno stato federale.
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