SCENARI. A COSA DEVE SERVIRE
“Una soluzione alla ricerca di un problema”. L’espressione, di solito riferita a innovazioni tecnologiche, si adatta bene al Partito Democratico: qual è il problema politico di cui dovrebbe essere la soluzione? In altre parole: il Partito Democratico, va bene, ma per fare che cosa?
Le forze del centrosinistra, tutte le volte che si sono presentate insieme, hanno preso più voti che separate: l’Ulivo alla Camera ha avuto il 3% in più di DS e Margherita al Senato; ha battuto Forza Italia in 13 province in più di quello che han saputo fare i due partiti ciascuno per conto loro. L’entusiasmo con cui Prodi è stato votato alle primarie era anche polemica sollecitazione ai partiti del centrosinistra a mettersi sotto una guida unitaria. Logico cercare di sfruttare questo consenso da parte di “partiti ridotti allo scheletro, (Ilvo Diamanti, la Repubblica 21 Maggio), che insieme, non raggiungono il peso elettorale della DC o del PCI, partiti piccoli o medi, dall’identità opaca”. Logico riprendere, e senza por tempo in mezzo, il discorso lasciato a metà in campagna elettorale: per dedicarsi a tempo pieno alla costruzione del Partito Democratico, Piero Fassino è stato lasciato fuori dal Governo. Si chiede a gran voce di convocare una costituente: guidata da chi? Dai poteri intermedi, sindaci e presidenti di Regione, perché in forza della investitura popolare diretta sarebbero in grado di interpretarne la volontà? Lo suggerisce Diamanti, ma è un’elegante scappatoia. Si deve decidere come eleggere il leader: ed è subito primarie, a prescindere. Si parla di metodi , di percorsi, si evocano i club unificati da Mitterand. Di una cosa non si parla: il Partito Democratico, perché? per andare dove?
Disporre del gruppo parlamentare di gran lunga maggiore può gonfiare il petto di orgoglio: ma a che serve se poi si è sempre sul filo del 50%? Davvero crediamo che una forza unitaria servirebbe a evitare le divisioni che si sono viste nella formazione del Governo? L’appello alla costituente è o una petizione di principio (un nuovo recipiente per questioni irrisolte) o un’ipoteca sul futuro (predeterminare il leader del dopo Prodi). E così, tra quanti vedono il rischio che nel Partito Democratico si disperdano identità ideali e legami personali, quanti temono che esso sia l’unione di burocrazie politiche, senza anima e senza storia, e quel 3% in più che punta sulla “forza etica e profetica della società civile”, finisce che la ragione per il Partito Democratico che mette tutti d’accordo è liberarsi una volta per tutte da Berlusconi.
La strada delle fusioni tra partiti è costellata di fallimenti, brucia ancora il ricordo di quanto tentarono Nenni e Saragat. Vale la pena affrontare un cammino così rischioso solo per costruire qualcosa che duri nel tempo, che offra soluzioni di lungo periodo ai problemi del nostro Paese. Invece fondare il Partito Democratico sull’antiberlusconismo è un’operazione caduca non fosse che per motivi anagrafici, e un implicito voto di sfiducia nella capacità del Governo Prodi di tenere per tutta la legislatura.
A meno di fare del berlusconismo l’epifenomeno di un dato immanente della nostra società e della nostra politica, quello stesso che ha prodotto il craxismo, e prima il fascismo, e prima ancora l’industria protezionista del Nord e il pigro latifondo del Sud. E che non si tratti dunque (più) di sconfiggere il Cavaliere e il suo “partito di plastica”, ma di ristabilire (per sempre) la legalità contro l’illegalità, il senso dello Stato contro l’uso personale del potere. L’opposizione a Berlusconi, in particolare negli ultimi 5 anni, ha già fortemente segnato il centrosinistra, l’ha squilibrato a sostegno di un antifascismo speculare all’anticomunismo, a una difesa talebanica dell’intangibilità della Costituzione, a promozione di una solidarietà universale e quindi astratta, di classe, generazionale, regionale, planetaria. “Nemico addio? ” è il titolo del convegno tenuto a Macerata il la settimana scorsa. Ma a fronte dell’ottimo intervento di Giovanni Sabbatini, pubblicato dal Riformista, stanno molti altri in cui magari si negava formalmente l’antiberlusconismo ma se ne sosteneva una mutazione, come necessità di ristabilire un presunto stato di natura, rotto dall’invasione del Cavaliere. Se sarà questa la base su cui si fonderà il Partito Democratico, il centrosinistra continuerà a ripetere gli errori che gli sono già costati cari: negli anni ’70-’80, quando si schierò a difesa del monopolio pubblico televisivo, contro una liberalizzazione che stimolava la crescita del mercato interno e delle imprese che vi operano, a vantaggio dei consumatori, di merci e di spettacolo; e nella seconda metà degli anni ’90, quando non seppe essere un’alternativa credibile per la metà di tutti gli italiani e per la maggioranza degli italiani del nord, quelli che chiedono uno Stato meno costoso e invadente, un’amministrazione più efficiente, una giustizia non politicizzata.
Non funziona la fusione fredda, l’armonico comporsi delle culture politiche di DS e Margherita. Per la fusione calda ci vuole un obbiettivo nuovo e ambizioso: farsi portatori dei valori necessari a governare un paese ad economia capitalistica matura nel mondo globalizzato. E ci vuole una leadership che convinca e trascini, guardando avanti, con mente sgombra. Dopo tutto, è con la cancellazione del Chapter Four che è iniziata la lunga premiership di Tony Blair: perché sono le leadership che fanno i numeri, e non viceversa.
Questo è il problema di cui il Partito Democratico può essere soluzione. A patto che sappia liberarsi dai fantasmi dell’antiberlusconismo.
maggio 25, 2006