Una vecchia volpe della televisione come Agostino Saccà, già super dirigente Rai
(in causa con Viale Mazzini), spiega perché il servizio pubblico è un miracolo

settembre 22, 2011


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di Marianna Rizzini

La Rai è in coma, la Rai è morta, la Rai è in pericolo, il canone Rai è la tassa più odiata dagli italiani (sondaggio sul Corriere, qualche giorno fa), la Rai va venduta, la Rai è un carrozzone vuoto, in Rai sono tutti “servi della politica” Simona Ventura a Vanity Fair, dopo il passaggio a Sky), in Rai ci si sente “precari” (Fabio Fazio, prossimamente in onda su Rai e La7), la “Rai ci ha rotto” (Patrizia Mirigliani, patron Miss Italia), “ha senso restare” in questo cda Rai? (Nino Rizzo Nervo, consigliere di centrosinistra dopo il niet del cda a Serena Dandini), “ha senso restare in Rai?” (Lucia Annunziata, dopo il niet a Serena Dandini): dici “Rai” ed è subito disgusto, orrore, presagio di sventura. E’ vero che la settimana scorsa, prima del niet a Serena Dandini, un Giovanni Floris istituzionale si è levato a dire che no, lui non crede “che la Rai sia alla fine”, e però dopo il niet ha un po’ ritrattato, parlando di Rai3 come di una rete “smontata a pezzi”. E insomma sono giorni in cui i difensori della Rai, se ci sono, stanno volentieri zitti.

Poi c’è uno che dice “hai presente il calabrone? A rigore scientifico non dovrebbe volare, con quell’apertura alare e quella
massa. E invece, toh, vola”. Il paragone campestre è di Agostino Saccà, uno che con la Rai è in causa e dalla Rai adesso è fuori (fa il produttore cinema-tv con la sua società Pepito), ma che in Rai ci ha passato una vita: caporedattore al Tg3, vicedirettore di Rai2, capostaff di Letizia Moratti nel 1994 (quando la Moratti era presidente), capo del marketing strategico, capo del palinsesto, capo della comunicazione, direttore di Rai1 per due volte, direttore della fiction, direttore generale e protagonista, tra il 2007 e il 2010, di un vero e proprio “caso Saccà”: intercettato (al telefono con Silvio Berlusconi), sospettato (di connivenza col nemico Mediaset), sospeso, reintegrato dal tribunale del lavoro, rimosso (da Rai Fiction), sostituito (con Fabrizio Del Noce) e infine riabilitato dal gip di Roma Pierfrancesco De Angelis che, accogliendo la richiesta di due pm e del capo della procura, ha stabilito che l’ex dg non ha commesso reati, non ha violato i doveri d’ufficio ed è stato illegalmente intercettato sulla base di “una mera fantasiosa illazione” (sono parole che Saccà ripete scandendo con soddisfazione : “Fan-tasio-sa il-la-zio-ne”). Giovanni Minoli, Liliana Cavani, Vittorio Storaro, Roberto Faenza e Carlo Lucarelli, tra gli altri, l’avevano difeso da sinistra, e però quanti “sicofanti”, diceva il Saccà dei giorni bui, quello che si definiva “un giusto sulla via degli empi” e che, “come nell’antica Atene”, si sentiva “accusato sulla base di prove inesistenti da gente che voleva solo impossessarsi del patrimonio del condannato”. Quando qualcuno gli dice “sei l’esecutore dell’editto bulgaro”, Saccà risponde: “Santoro e Biagi? Non li ho cacciati, guardare le carte per credere”. “Il conflitto di interessi io l’ho invalidato”, ha detto in un’intervista a Vittorio Zincone su Sette: “Sono un amico di Berlusconi, uno che lo vota” ma non ha fatto “sconti a Mediaset” negli ascolti. E dunque oggi, a occhio, Saccà dovrebbe fare, con la Rai, come il cinese che aspetta il cadavere sulla riva. Invece – chi l’avrebbe detto – Saccà, messosi in proprio (lavora anche con Mediaset, con Sky, con francesi e americani, e qualche tempo fa i suoi progetti avevano attirato l’attenzione degli uomini d’economia engagé Luca Cordero di Montezemolo e Corrado Passera), pronuncia un’arringa a difesa dell’ex azienda madre. La Rai, dice Saccà, “in teoria dovrebbe essere spacciata, come il calabrone: la concorrenza delle tv commerciali, l’arrivo del digitale, le tv a pagamento, i dieci e più anni di bastonate, critiche, sputi, nemici, accuse. A fine agosto anche il Corriere della Sera, a firma Pierluigi Battista, ha scritto che privatizzare la Rai è ‘un guadagno per tutti’ e che il canone è ‘un balzello iniquo’. Eppure la Rai si salva da sola, nonostante tutto, come si è già salvata dopo la fine della Prima Repubblica”. Come può Saccà, in controtendenza con l’universo mondo (mediatico), affermare che la Rai “sta bene” e “che se il suo management, raccolto attorno al dg, avesse uno scatto d’orgoglio, starebbe benissimo?”. “Basta guardare i dati senza pregiudizio”, dice. Ecco i dati: “Nell’anno solare 1987, all’avvio delle rilevazioni Auditel, la Rai faceva, nel prime time, il 45,2 per cento dell’audience dell’intero panorama televisivo e circa il 45 nell’arco della giornata. Dieci anni dopo, nel ’98, si attestava sul 48,05 per cento. Nell’anno solare 2010, con le tre reti generaliste e l’insieme dei canali digitali in chiaro, la cifra è 45 per cento, cioè la Rai ha conservato pressoché inalterata la quota di mercato di 23 anni prima. E’ come se la Fiat stesse al 50 per cento di mercato e non al 30 e l’Olivetti fosse ancora in salute, pronta a vendere computer e iPod. Né le cose sono cambiate nella prima metà del 2011, a dispetto dei terremoti in Viale Mazzini: tra reti generaliste e reti digitali, la Rai totalizza, di nuovo, circa il 45 per cento. E allora che cosa dicono, quelli che parlano di deriva, di morte, di sparizione della Rai?”. Prima di squadernare altre tabelle, Saccà percorre lo studio per tornare con la statuetta dell’“Emmy, l’Oscar
della tv”. “L’ho vinto da direttore di Rai1 per la ‘Traviata a Parigi’ di Andrea Andermann”, dice. “In Italia, mi pare, l’abbiamo
vinto solo io ed Ettore Bernabei per ‘Gesù di Nazareth’”. Brandisce l’Emmy e indica i telegatti in bilico sulla libreria, il Saccà fresco di secondo matrimonio che indossa cappellini con visiera anche fuori dalla spiaggia.
Poi dice: “Parlo di Rai perché so di che cosa parlo”. Due anni fa, intervistato da Andrea Marcenaro, aveva espresso lo stesso concetto al netto d’ogni modestia: “Io sono la Rai”. E insomma Saccà non ha dubbi: “E’ ora di demistificare anche la storia del canone ‘tassa più odiata dagli italiani’. Ma lo sanno, i signori critici del canone, che il nostro è il più basso d’Europa?”. Tabella alla mano (dati Ebu della penultima stagione), Saccà si lancia in un confronto tra Rai e tv pubbliche oltralpe e oltremanica: “La tv pubblica tedesca, Ard e Zdf, su 6,2 miliardi di entrate complessive all’anno, riceve dal canone l’83,9 per cento. La Bbc, su 5,1 miliardi di euro complessivi, il 76,5. France 2 e France 3, su 2,9 miliardi, il 65,5. La Rai, sempre su 2,9 miliardi di euro totali, il 55,2. Non solo, dunque, il canone Rai è più basso degli altri, ma se si confrontano i dati dello share si vede che, per una Rai che si attesta tra il 44 e il 45 per cento, ci sono Ard e Zdf al 26,9, la Bbc al 30,2 e la tv pubblica francese al 33,8. Con meno dipendenti degli altri (circa 11.000 a fronte dei 24.000 della tv tedesca, dei 23.000 della Bbc e dei 12.000 di France 2 e France 3), la Rai ha 15.000 ore di produzione interna all’anno. Erd e Zdf ne hanno 8.655, la Bbc 8.944 e le tv pubbliche francesi 7.698. E allora di che cosa ci si lagna, fatemi capire. Con 0,30 centesimi al giorno di canone gli italiani, con la Rai, sono i più virtuosi”. La fama pessima del canone va “sollevata a suon di fatti”, dice Saccà: “Canone vuol dire avere meno spot nei programmi, e lo dico con un grande rispetto per le tv commerciali che di pubblicità devono vivere. Ma la Rai è servizio pubblico, è diverso. Per 0,30 euro al giorno, un terzo del costo di un quotidiano locale, lo spettatore del servizio pubblico ha l’informazione regionale in esclusiva: circa 3 ore al giorno, 200 troupe sul territorio, 300 linee di montaggio e circa mille giornalisti con ascolti molto buoni. Per 0,30 euro al giorno si ha l’offerta sportiva (extra-campionato e coppe di calcio) più completa: mondiali ed europei di calcio, atletica, tennis, nuoto, ciclismo, Olimpiadi, circuito automobilistico. Senza contare che la Rai custodisce la memoria sonora e visiva del paese dall’inizio del Novecento e ha investito centinaia di milioni di euro per modernizzare i supporti di questo materiale. 0,30 euro al giorno non valgono la memoria del paese?”.
“Il canone? Una panacea”, dice Saccà senza temere di esagerare e senza curarsi di chi intanto sostiene che la Rai perde
pubblicità a favore di Mediaset. A canone evaso recuperato (“per esempio ancorandolo alla bolletta della luce”), dice, “gli effetti positivi si sentirebbero a ricasco su tutti i media, giornali compresi. Sarebbe una specie di rivoluzione. Intanto, grazie al canone, la Rai, alla fine dei Novanta, investendo massicciamente in fiction, ha permesso di mantenere vivi i mestieri del cinema, una grande tradizione italiana. Mestieri che rischiavano di scomparire negli anni in cui il nostro cinema era in crisi. Con questo investimento nel 2007, per esempio, le 200 prime serate di fiction sulle tre reti Rai (di cui 30 in replica), sono state viste, in totale, da un miliardo e cento milioni di telespettatori.
Per non parlare dei cartoni animati: grazie agli 0,30 euro al giorno di canone è stata costruita l’industria italiana dei cartoni: ora abbiamo circa 2.000 ore di cartoni in magazzino prodotti nel paese, tra cui le Winx, esportate in tutto il mondo. Nel ’99 avevamo meno di dieci ore in tutto di produzione italiana. Sempre grazie al canone è stato dato impulso all’industria italiana del documentario, al suo meglio su Rai Education di Giovanni Minoli e sui ‘miracolosi’ Rai Storia e La storia siamo noi – che sul nostro digitale battono History channel. E tu non vuoi dare 0,30 centesimi di euro al giorno per tutto questo?”. Il canone, però, in Italia, pare brillare soprattutto per evasione. Saccà dice: “Il paradosso sta proprio qui: con il canone più basso d’Europa, e con un’evasione al 23 per cento (peraltro non sanzionata), la Rai resiste con il suo 45 per cento. E ricordiamoci che l’Inghilterra di Blair aveva previsto 10 sterline in più all’anno di canone per l’avvento
del digitale, noi no. Gli inglesi si sono messi a testa bassa a stanare gli evasori: c’erano addirittura le camionette con parabolasensore della Bbc in giro per i quartieri dove il numero delle famiglie e il numero dei contribuenti al canone non combaciavano, modello ‘Gestapo con le radio clandestine’. In Europa l’evasione del canone è considerata evasione fiscale. In sedici paesi europei viene legata alla bolletta elettrica o ad altri sistemi di riscossione automatica. Da noi c’è
stato solo il famoso sacco di iuta a sigillare la tv dell’evasore”. Saccà fa i calcoli sull’eventuale recupero, e di nuovo vede un futuro “rivoluzionario”: “Arriverebbero circa 600 milioni di euro dalle famiglie che evadono e circa 200 milioni di euro dal canone speciale – i bar, i ristoranti, alberghi, le cliniche. E però il recupero non servirebbe solo alla Rai, anzi. La Rai a quel punto arretrerebbe dal mercato pubblicitario, liberando risorse per altre emittenti, e comunque sarebbe
costretta a elevare i suoi contenuti da ‘servizio pubblico’. Non avrebbe più la scusa della pubblicità per buttarsi a corpo morto sui reality”. Reality nel servizio pubblico, per Saccà, significa male assoluto: “Alterano la percezione della realtà”. I milioni di investimenti pubblicitari “liberati” (“almeno 200”) andrebbero, dice, “a redistribuirsi anche su una carta stampata che ha perso quasi il 10 per cento negli ultimi anni. Certo, bisognerebbe studiare un vincolo di legge, per esempio un fondo che, a partire dal recupero del canone, vada a sostegno dell’informazione cartacea”. Magari in Rai si
porrebbe il problema di che cosa farsene, del canone recuperato. Saccà dice: “Investimenti tecnologici, prodotto di qualità, altricanali digitali, di cui uno dedicato all’insegnamento dell’italiano agli stranieri, sulla scia del vecchio programma ‘Non è mai troppo tardi’, Telescuola anni Sessanta. Poi si potrebbe riservare uno spazio sul digitale al teatro e alla musica. Con 300 milioni di euro di investimento aggiuntivo in prodotto italiano (cinema, fiction, teatro, musica) si darebbe una spinta potentissima all’industria nazionale e si potrebbe dare lavoro a circa quindicimila persone. Sai quante compagnie teatrali si potrebbero finanziare? Peserebbe meno anche il taglio del Fus”. La possibile “rivoluzione” diventerebbe invece “incubo”, dice Saccà, in caso di “abolizione del canone”: “Le reti vendute andrebbero sul mercato della raccolta pubblicitaria. La carta stampata ne soffrirebbe più di tutti, visto che la fetta di investimenti pubblicitari resterebbe più o meno quella, specie in periodo di crisi economica”.
“Il calabrone dunque vola”, dice Saccà, ma è sul “perché vola” che mostra più “rammarico”: “Ci si dimentica che la Rai racchiude al suo interno, nel suo dna, il meglio delle culture politiche che hanno abitato il Novecento, nel bene e nel male: il fascismo, l’azionismo torinese, il cattolicesimo nella sua versione più inclusiva, il comunismo del Pci. Si può dire tutto il male del fascismo, ma gli esordi della Rai sono avvenuti durante il fascismo e alla Eiar, così si chiamava allora, si è dato il meglio della tecnologia dell’epoca. Era avanguardia sotto l’influsso di Gugliemo Marconi: ne resta ancora oggi una traccia nell’attenzione dell’azienda alle nuove tecnologie. Da lì viene la fama dei mitici ‘ingegneri Rai’, capaci di far ripartire qualsiasi trasmissione anche nelle condizioni più disperate, da lì viene la monumentale opera tecnica fatta sulle linee di trasmissione radio e tv e da lì viene l’invenzione del digitale (l’algoritmo di base a fondamento del digitale è stato
trovato a Torino dagli ingegneri Rai). Dalla Eiar fascista viene anche la cultura della gerarchia: per quanto debole e pasticcione possa essere un direttore generale Rai, ancora oggi se il dg schiaccia un bottone al dg si obbedisce”. Su questa cultura, dice Saccà, si è innestata “quella azionista della Torino del Dopoguerra. La Rai aveva sede a Torino, e la direzione amministrativa lì rimase anche dopo il trasferimento a Roma, quasi fino ai nostri giorni. Se qualcosa costava troppo, un direttore generale poteva dire: ‘Eh sai, non si può, abbiamo i torinesi che fanno i conti’. Azionismo torinese
significava appunto rigore e apertura internazionale a cui avevano lavorato i ‘massoni anglo-olandesi’, come Ettore Bernabei chiamava gli azionisti torinesi della Rai”. Senza paura di essere considerato revisionista, Saccà sfida ogni giudizio sulla Rai di Letizia Moratti: “Puntando su quella tradizione di rigore l’azienda si è risollevata negli anni del post Tangentopoli: la Rai dei professori, nel ’93, non riusciva a pagare le tredicesime. Il governo stanziò per decreto circa quattrocento miliardi di lire, per salvare la Rai, ma la Moratti, di cui sono orgoglioso di essere stato capo staff, era convinta che la Rai avesse le risorse interne per farcela di sola e rifiutò quei soldi. In due anni riuscì ad azzerare mille e cinquecento miliardi di debito”. Periodicamente, dice Saccà, la Rai si salva “ricorrendo alla forza delle culture di cui è intrisa”. Terza, ma non ultima, dice, “è la cultura cattolica di Ettore Bernabei, un fanfanian-dossettiano amico fraterno di La Pira. Una cultura inclusiva, ecumenica. Bernabei tenne al tg Fabiano Fabiani che copriva a sinistra con il Pci. E inventò la tribuna politica: si vide per la prima volta Palmiro Togliatti apparire non in un ‘panino’, ma con tutti in crismi
e in piena parità con i democristiani – un compromesso storico ante litteram. E’ con Bernabei che la Rai, grazie alla centralità del prodotto, è diventata la seconda pelle del paese. Poi, con Biagio Agnes, la divisione anche politica dei tre canali divenne più meccanica, ma intanto si era allargato l’orizzonte. I comunisti, con Sandro Curzi e Angelo Guglielmi, aggiungono al patrimonio Rai la cultura del racconto della realtà e della rappresentazione del conflitto politico e sociale. Ecco perché la Rai, specchio della nostra storia e sintesi di quattro grandi culture, resiste a tutti i terremoti”.
Poi Saccà estrae da un quadernone una tabella con i sedici loghi colorati dei canali Rai (generalisti e digitali). Li guarda,
sospira e dice: “Tutto questo è quasi miracoloso. Buttarlo via? Vendere? Sarebbe un atto folle di masochismo nazionale”.

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