Anche in Irak, i vuoti della politica prima o poi si riempiranno. Oggi si possono solo individuare gli scenari estremi entro cui si collocherà il futuro del paese.
Anche in Irak, i vuoti della politica prima o poi si riempiranno. Oggi si possono solo individuare gli scenari estremi entro cui si collocherà il futuro del paese. Uno, in cui gli alleati assicurano l’ordine pubblico, si instaura un governo legittimo, e l’Irak conosce stabilità, convivenza tra etnie, confini presidiati. All’estremo opposto, uno in cui gli USA abbandonano l’Irak al suo destino, esplode la guerra civile; e, poiché non c’è mai limite al peggio, la caduta della monarchia saudita, un colpo di stato in Pakistan, il prezzo del petrolio a 60 $ al barile. Uno scenario in cui non sarebbe neppure più possibile un intervento umanitario dell’ONU.
Il ritiro delle nostre truppe favorisce l’evoluzione verso una situazione più vicina al primo o al secondo scenario? Questa è la domanda che una sinistra di governo deve porsi. (Non, spero, una domanda sull’evoluzione dei sondaggi elettorali, col retropensiero della irrilevanza pratica di una mozione di minoranza: chi così ragiona, sceglie per sé l’irrilevanza politica.)
E’ la tragedia delle torture a fornire lo spunto per una decisione da tempo nell’aria. Ma ci si deve chiedere: quale ragione politica costituisce il nesso tra denuncia delle torture e richiesta di ritirare le nostre truppe dall’Irak? Romano Prodi cita l’Osservatore Romano, che definisce le torture crimini di guerra: ma le gerarchie cattoliche considerano una follia lasciare l’Irak prima dell’arrivo dell’ONU.
L’indignazione é un sentimento legittimo e nobile. Ma le torture vanno valutate anche come fatti politici: é a fronte della inane inconcludenza delle operazioni militari che risalta non solo la loro immoralità, ma la loro inutile stupidità; è nell’assenza di progetto politico che sorgono e dilagano. Le torture non sono necessarie per vincere la guerra, sono possibili perché si sta perdendo la guerra.
Con una politica ridotta a opportunismo, il governo Berlusconi è caduto nella trappola della stessa inconsistenza strategica degli USA in Irak dopo la liberazione. Ma il centro sinistra, chiedendo il ritiro, sfiduciando perfino il piano Brahimi, forse a un passo dal traguardo, dimostra un vuoto politico che lo pone sullo stesso piano di Berlusconi. E si sorvola per carità di patria sulla richiesta di dimissioni di un Ministro di un governo straniero.
Oggi lo spazio per influire sulla politica USA in Irak è ridotto a poca cosa: troppo tardi, troppo diversi i rapporti di forza, troppo incombenti le elezioni americane. Ma ci sono altri sviluppi in corso: il ministro degli esteri francese, Michel Barnier, riferiva ieri il Financial Times, sta proponendo una conferenza fra parti irachene, paesi confinanti e comunità internazionale, per disegnare il futuro dell’Irak. Proprio l’Italia, che è stata dalla parte degli USA nel considerare legittimo l’intervento in Irak, può aiutare a ricucire quel tragico strappo, a ricompattare l’Occidente e i Paesi arabi moderati, scongiurando di porre tutto il mondo sotto il ricatto di un fondamentalismo islamico forte del suo trionfo.
Questa è la sfida su cui il centrosinistra dovrebbe incalzare Berlusconi, impegnandolo alla realizzazione delle tappe di un processo. In caso di fallimento, la richiesta di ritiro sarebbe un voto di sfiducia a un governo incapace di ottenere risultati. Non, come invece quella unilaterale di oggi, la rinuncia alla propria voce politica.
Quanto poi al modo di cercare di salvarsi l’anima, quella, con il terrorismo, è una speranza vana.
maggio 15, 2004