La travagliata esperienza italiana con le privatizzazioni delle imprese pubbliche ha messo in luce le carenze del nostro mercato dei capitali e l’assoluta necessità che gli investitori istituzionali, vale a dire fondi di investimento, fondi pensione, banche e assicurazioni, sviluppino in tempi rapidi la propria attività. Gli investitori istituzionali sono indispensabili per reperire ed organizzare le risorse richieste per l’acquisizione delle aziende da privatizzare. Sono anche indispensabili perché, al fine di ottenere l’aumento di efficienza che ci si ripromette dal generale processo di liberalizzazione dell’economia occorre che la concorrenza operi non solo nel mercato dei beni e dei servizi, ma anche nel mercato dei diritti di proprietà. Questo è il ruolo degli investitori istituzionali nei mercati evoluti.
E’ anche per mancanza di investitori istituzionali, oltre che per resistenze di natura culturale ed ideologica, che il processo di privatizzazione si sta muovendo con tanta lentezza. Nella situazione italiana il ruolo delle banche risulta particolarmente rilevante, per la temporanea supplenza che esercitano in luogo dei fondi pensione, e per la loro azione nell’organizzare e garantire il collocamento dei titoli azionari presso il pubblico. La privatizzazione del sistema creditizio, dunque, avrebbe dovuto precedere la privatizzazione delle altre imprese pubbliche. Invece, mentre l’IRI ha dapprima venduto alcune banche da esso possedute, il sistema delle Casse di risparmio e degli altri istituti di credito detenuti da fondazioni/associazioni bancarie, ex di diritto pubblico, risultano ancora largamente possedute dalle rispettive fondazioni/associazioni, nonostante le sollecitazioni per promuovere una rapida dismissione.
Da queste circostanze è scaturita una proposta di legge, da me presentata al Senato, con la quale mi propongo di definire una procedura per la dismissione delle banche possedute dalle fondazioni/associazioni bancarie che si svolga:
- in tempi certi
- senza la necessità di un intervento di imperio da parte degli organi di controllo o di governo. altro che per le funzioni di vigilanza
- preservando il patrimonio delle fondazioni/associazioni e i loro legami storici e culturali con le realtà locali in cui hanno tradizionalmente operato
- creando le condizioni affinché le fondazioni/associazioni possano sviluppare la propria attività nel settore non-profit
- favorendo lo sviluppo del mercato dei titoli mobiliari, attraverso la diffusione della proprietà azionaria. La creazione di nuovi investitori istituzionali e lo spessore delle contrattazioni
- assicurando particolari incentivi ai dipendenti, ex dipendenti,
- clienti delle banche, e quindi alla comunità a cui prevalentemente si rivolge l’opera delle fon-dazioni/associazioni
- nel rispetto di uguali diritti a tutti i cittadini
La legge Amato del 1990 ha avviato una prima ristrutturazione, creando delle società per azioni titolari delle rispettive “aziende bancarie” e lasciando alle fondazioni/associazioni esclusivamente il ruolo di proprietarie delle partecipazioni azionarie. Pur potendolo fare, le fondazioni non hanno però ridotto la partecipazione al di sotto della soglia di controllo. Miglior risultato non ha ottenuto nemmeno la successiva direttiva emanata dal Ministro del Tesoro Dini nel novembre dell’anno scorso diretta a sollecitare questo processo. La legge Amato non è riuscita nemmeno a promuovere la concentrazione del sistema, infatti le 82 fra Casse di risparmio e Banche del Monte esistenti al momento della sua entrata in vigore ora sono 76, mentre, rispetto all’intero settore creditizio, le Casse detengono il 20,3% dell’attivo, il 20,5% della raccolta ed impiegano il 23% dei dipendenti.
Delle società conferitarie, quelle ad avere aperto la compagine azionaria agli investitori esterni sono appena 24 e solo 6 con quote di partecipazione dei privati superiori al 20%.
Oggi, la proprietà di banche da parte delle fondazioni/associazioni produce la vistosa anomalia di soggetti che controllano uno strumento così vitale quale il credito senza essere praticamente responsabili delle proprie decisioni nei confronti di nessuno. I vertici delle fondazioni/associazioni, e di conseguenza delle banche con i quali ancora oggi coincidono in molti casi, già espressione della volontà e della spartizione compiuta dal potere politico, sono riusciti ad emanciparsene, diventando detentori di un potere irresponsabile, senz’altro verso il mercato, ma ora anche verso il potere politico, magari con la tentazione di poterlo condizionare. Convertire le partecipazioni bancarie delle fondazioni/associazioni in valori mobiliari negoziati sul mercato, separato il controllo delle proprietà, riorientata l’attività sulla prudente diversificazione del proprio patrimonio e sull’impiego del reddito che ne deriva, cadrà la principale ragione del legame, anche se residuale e indiretto, con il potere pubblico. Non solo: la scarsa redditività del capitale delle fondazioni/associazioni impiegato nella partecipata bancaria, la bassa redditività degli istituti di credito controllati e l’enorme concentrazione del rischio del patrimonio in un’unica attività sono la chiara dimostrazione che alle fondazioni/associazioni, piuttosto che il valore del bene posseduto, interessa il potere che deriva dal suo possesso.
Con la mia proposta ho inteso mettere a punto una procedura capace di rompere l’attuale stasi del settore. Si tratta anzitutto di stabilire alcuni criteri per far sì che di vendite effettive si tratti, e non di modi per aggirare l’impegno a vendere. Successivamente si offrono alle fondazioni/associazioni due percorsi: uno volontario ed uno automatico. I due percorsi non sono in alternativa tra loro, sicché – e si ritiene che possa essere il caso più frequente – la fondazione/associazione si potrà avvalere di entrambi. Entro 18 mesi la fondazione/associazione potrà usare le procedure tradizionali: trattativa diretta, asta pubblica, offerta pubblica di vendita. La fondazione/associazione può mantenere fino ad un massimo del 15% delle azioni della banca controllata e, quindi, non le si preclude di rimanere importante azionista della banca. In questo periodo, tuttavia, si ammettono operazioni che possano riguardare banche ancora di proprietà delle fondazioni/associazioni al fine di favorire il processo di concentrazione. Con la sola esclusione dei soggetti che si trovano in conflitto di interessi, nessun vincolo viene posto quanto a scelta dell’acquirente o degli acquirenti, nè quanto a frazionamento, ferma restando ovviamente la funzione di vigilanza e tutela della Banca d’Italia. Il mantenimento della natura locale delle banche e la garanzia che vengano mantenuti eventuali rapporti tradizionali con le attività economiche locali sono elementi la cui valutazione viene lasciata alla discrezionalità degli amministratori delle fondazioni/associazioni.
Facilitazioni sono previste per dipendenti, ex dipendenti e clienti.
Il percorso automatico può essere imboccato dalla fondazione/associazione nel momento che ritiene più opportuno, ma diventa obbligatorio dopo che siano trascorsi 18 mesi; esso riguarda la totalità delle azioni a quel momento ancora possedute dalla fondazione/associazione. Il diritto ad acquistare tali azioni – buono di acquisto – viene offerto ai dipendenti del gruppo ed ai clienti, persone fisiche, sia della banca che di eventuali società da essa possedute. I buoni di acquisto sono liberamente cedibili e verranno obbligatoriamente trattati in Borsa per un periodo di tre mesi. Il buono dà diritto ad acquistare un’ azione della banca a tre volte il prezzo medio che verrà rilevato negli ultimi due mesi di contrattazione. Essendo praticamente impossibile che tutti coloro che hanno ricevuto il buono intendano sottoscrivere, non si darà il caso che non ci siano scambi e quindi non si registri prezzo. Col procedere delle contrattazioni, si stabilizzerà così il prezzo del buono: il suo valore medio rappresenterà il 25% del prezzo di acquisto dell’azione. Chi infatti volesse acquistare un’azione della banca, sia perché non è un assegnatario originario del buono, sia perché volesse incrementare la quantità di azioni che desidera sottoscrivere, dovrà comperare solo il buono in borsa, diciamo a 100, e poi esercitare il diritto a comperare che il buono assegna, versando, alla fondazione/associazione che cede, tre volte il prezzo di borsa del buono, vale a dire 300. Il costo totale per l’acquisto di un’azione per lui è quindi 400. Il vantaggio economico di chi riceve inizialmente il buono sono le 100 che non deve pagare per ottenerlo. Per lui il costo dell’acquisto di un’azione è solo 300. Il 25% del prezzo di collocamento è dunque il vantaggio che viene concesso a coloro che intrattengono rapporti con la banca. E’ interessante notare che la preferenza sul prezzo spetta solo ad una particolare categoria di cittadini, mentre il diritto ad acquistare è offerto a chiunque intenda partecipare al mercato. Il prezzo che in tal modo si determina è, per definizione, il prezzo “vero”, quale si determina nelle concrete condizioni del mercato in quel momento.
Trascorsi i termini assegnati, ove la fondazione/associazione risulta detenere ancora una partecipazione, i vertici delle fondazioni/associazioni verranno sostituiti da un commissario nominato dal Ministero del Tesoro, il quale provvederà alla vendita dell’intera partecipazione al momento detenuta: si deve infatti ritenere che in tal caso sussistano o ragioni di volontà soggettiva o di difficoltà oggettive che impongono al Governo di prendere in mano la gestione del problema.
Questa, in estrema sintesi, la procedura, che è comprensiva di tutte le possibili situazioni che si possono verificare, che non richiede alcun intervento da parte degli organi di controllo o di governo, la loro azione restando concentrata sulla funzione di vigilanza. La maggiore obiezione a questa proposta viene da chi insiste per un processo lento e graduale di dismissioni, e che mantenga per le fondazioni/associazioni il ruolo di azionista di riferimento.
Il rischio di intasare il mercato per eccesso di offerta e il rischio di creare una concentrazione monopolistica dovrebbe essere scongiurato dal fatto che il percorso per la vendita si svolge su un arco di tempo di 22-25 mesi. E’ vero che il prezzo che si riuscirebbe a realizzare potrebbe essere più elevato se una sola fosse la banca da vendere, e se si potesse scegliere il momento più favorevole per farlo. ma ancora una volta tale prezzo corrisponderebbe a condizioni teoriche, reale essendo il prezzo determinato nelle reali condizioni di mercato. Va anche notato che le due obiezioni in qualche modo si elidono a vicenda, data che proprio la simultanea offerta al mercato di tutte le banche detenute da fondazioni/associazioni, sia pure in un periodo di tempo ragionevolmente esteso, riduce la possibilità pratica di un gruppo limitato di soggetti di reperire i mezzi finanziari necessari per un massiccio rastrellamento.
Quanto alla difesa del carattere locale delle banche, essa si realizza proprio garantendo ai dipendenti e ai clienti tradizionali la possibilità di diventare essi stessi azionisti della propria banca, ma senza alcuna intermediazione da parte degli enti pubblici locali, o, addirittura, da parte delle forze politiche locali.
A questo punto resta solo da auspicare che, visto che l’attuale capo del Governo è lo stesso Ministro del Tesoro che ha visto sostanzialmente ignorata la propria direttiva che verteva su questi stessi temi, questa proposta ottenga dal Governo e dal Parlamento la giusta considerazione.
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novembre 1, 1995