Se i nostri problemi economici sono grandi, grandi, si pensa, hanno da essere le cifre da mettere in gioco per risolverli. Affascinano gli stock, a incominciare dalla montagna del nostro grandissimo debito che altri prima di noi hanno lasciato che si formasse; annoiano i rivoli (più spesso fiumi) che oggi continuano a fluire e a lambire. Piacciono le cose grandi, da fare o (meglio) da chiedere, il colpo risolutivo: non si fregia di visione politica chi parla di gestione, che riduce «soltanto» i costi e migliora «soltanto» i risultati.
«Meno si parla di soldi e meglio è»: a scriverlo papale papale a proposito delle misure per combattere la disoccupazione giovanile, di cui si è parlato all’ultimo vertice europeo, è la Frankfurter Allgemeine. E pare rispecchi l’opinione della cancelliera Angela Merkel. Cinismo teutonico pre-elettorale, oppure saggio consiglio di non lasciarsi abbindolare dal compiacimento esibito dai governanti tornati con la mancetta da 6 miliardi (per tutta l’Europa, e a rate)? O serio ammonimento a por rimedio alle cause di questa triste piaga?
«Meno si parla di soldi e meglio è»: vien da pensarlo leggendo i programmi per l’abbattimento del debito pubblico, pietanze periodicamente riscaldate e servite; se sorgono a destra, li riecheggia la sinistra, e viceversa. Incominciano tutti con le dismissioni del patrimonio, 400 miliardi, una botta e via. I 15 miliardi l’anno, previsti da prima da Mario Monti e poi da Fabrizio Saccomanni, che non si riesce a realizzare obbligando a riscrivere il Def, quelli non sono soldi. Interessano i tagli per i tagli, non per la riduzione del costo che è possibile ottenere se il bene esce dal perimetro dello Stato, anno dopo anno: quello non fa sognare nessuno.
«Meno si parla di soldi è meglio è». Ci sono anche i soldi di cui si parla soltanto per dire che non si può parlare, quelli dei pacchetti di controllo delle aziende «strategiche». Che, dopo tutto quello che si è detto e scritto, chi ha cariche politiche tenga a mettere le mani avanti e a dichiararsi indisponibile a vendere l’Eni, non scandalizza, s’è visto di peggio: ma strategica l’Enel, in un mercato di fatto privatizzato? E Finmeccanica? E la rete tessuta dalla penelope telefonica? E, osando il sacrilegio, la Rai? Che la qualifica di «strategico» venga data per paura che l’azienda nella prateria finisca divorata dai predatori, o nella speranza che nello zoo sopravviva alle noccioline dei visitatori, è dubbio. È certo che in questi casi non parlar di soldi è politically correct.
«Meno si parla di soldi è meglio è» anche per tribunalini, per ospedaletti, e, se è ancora lecito esprimersi dopo la sentenza della Cassazione, per province. Si fa il conto dei soldi risparmiati per i rispettivi organi collegiali, i più audaci (o immemori) parlano di una parte dei dipendenti: ma dei soldi veri, quelli che gli italiani risparmierebbero con un livello di governo in meno, delle minori code e attese che sarebbero possibili automatizzando strutture di dimensione adeguata, di quei soldi e di quei tempi non si fa il conto.
«Meno si parla di soldi meglio è»: se i soldi sono quelli degli altri si rischia la delusione. Come quelli dello European Redemption Pact, proposto dai 4 membri del gruppo dei consiglio tedesco degli esperti economisti nel febbraio 2012, che la destra ha resuscitato e di cui la sinistra ha rivendicato una sterile paternità. Consiste in una mutualizzazione dei debiti eccedenti il famoso parametro del 60% per rendere uniforme e ridotto il tasso di servizio del debito, una forma dissimulata di eurobond. Che, come è noto, vengono regolarmente bocciati. Come dicono in Perù: «La misma india en otra falda».
«Meno si parla di soldi, meglio è»: se i soldi sono quelli che il Financial Times suggerisce che vengano erogati direttamente dalla Banca centrale europea per fornire credito alle piccole medie aziende. Detta così, la cosa snaturerebbe il ruolo delle banca centrale. Se invece si volesse suggerire di accettare come collateral strumenti che abbiano come sottostante crediti a Pmi, si dovrebbe aver prima stabilito un regime di margini iniziali che ne assicuri l’equivalenza con altri strumenti. Creare un canale di finanziamento non bancario è certo un problema prioritario: ma «parlare di soldi» non basta: bisogna che ci sia chi crea canali nuovi per il risparmio, chi sa valutare i rischi ed è disposto a offrire garanzie. E perché mai dovrebbe farlo se, sopra, c’è chi tutto garantisce?
luglio 11, 2013