Io, ebreo, incontro Priebke nella sua cella
Dalla finestrella dello spioncino vedo Erich Priebke di profilo. E’ seduto su uno sgabello e guarda la televisione. «Guten Abend, Herr Priebke, vorrei scambiare alcune parole con lei».
Sono entrato nel carcere di Regina Coeli per cercare di capire. Io ebreo vorrei scoprire un sentimento, un’emozione, un ragionamento o almeno la traccia di un ricordo in quell’uomo di ottantatre anni – venti anni più dei miei – che ha partecipato al massacro delle Fosse Ardeatine. Parlare in tedesco mi viene spontaneo. E’ una lingua che amo moltissimo, è la lingua di Musil e di Thomas Mann, da lui ho chiamato mio figlio Tommaso.
Priebke si è alzato dallo sgabello e mi offre da sedere. Korrekt, come direbbero i tedeschi. Non ha nessuna reazione di sorpresa nemmeno quando gli spiego che il mio nome è Debenedetti manifesta una origine ebraica e che per quell’origine alcuni dei miei parenti sono morti. «Ah bene, lei parla tedesco – è la sua risposta – oggi sono venuti già parecchi parlamentari».
Il maresciallo che mi ha accompagnato in cella mi raccomanda di non toccare argomenti riguardanti il giudizio.
Non ce n’è bisogno. In fondo non mi interessa accertare una specifica responsabilità processuale. «Non sono un giudice, Herr Priebke – gli dico – Voglio capire le persone e i sentimenti che provano. Lei cosa provava allora? Lei cosa ha pensato in tutti questi anni? C’era odio dappertutto in quel tempo di guerra, e lei cosa sentiva?».
Priebke si è seduto sul letto. Indossa una canottiera bianca a maniche corte. I pantaloni del pigiama, a strisce marroni e bianche, sono tirati su a mezza gamba o forse sono dei bermuda. «Noi a Roma stavamo molto bene», risponde. «Non c’era odio per nessuno. Kappler voleva che Roma fosse tranquilla». La faccia di Priebke è proprio come nelle foto. Il volto segnato dalle piccole macchie dell’età, gli occhi acquosi e uno sguardo che non posso definire altrimenti che “preciso”. Il capitano delle SS è korrekt anche nella voce. Nessuno sbalzo nell’intonazione, nè troppo alta nè troppo bassa. «Non mi ricordo proprio di odio», ripete con la modulazione di chi ha una corazza che niente può penetrare. «Non so neanche perchè in quell’elenco ci fossero ebrei. L avrà fatto qualcun altro l’elenco. Forse qualche italiano».
E’ lì che ho uno scatto. Gli dico che non si mettono insieme settantacinque ebrei per caso, che in Italia siamo una piccola minoranza, che al massimo se ne possono trovare tanti insieme in una sinagoga «e non erano anni in cui gli ebrei frequentavano le sinagoghe!».
«Noi eseguivamo ordini», ribatte Priebke. Ripetitivo, maniacale, persino modesto nella mancanza di qualsiasi variazione nel tono. La sua tesi me la ripeterà sistematicamente durante tutti i quarantacinque minuti di colloquio. Non si accorgerà nemmeno di contraddirsi quando mi spiega che in fondo l’esecuzione avrebbe dovuto farla il maggiore Dobrich del reggimento Bozen, quello direttamente coinvolto nell’attentato di via Rasella, ma Dobrich si è rifiutato, diceva che i suoi uomini erano cattolici e si rifiutavano e allora l’ordine è passato a Melzler» e poi a Von Mackensen e poi la faccenda è tornata a Kappler e infine è approdata alla polizia, cioè a lui Priebke.
Dunque non tutto era un meccanismo inanimato, dunque – cerco di suggerirgli – c’era chi faceva di più e chi faceva di meno. «Noi eseguivamo ordini», ripete con la voce che non cambia mai. Forse si è accorto che faccio proprio fatica ad ascoltare questa frase e allora aggiunge: «Noi eravamo molto addolorati per la vicenda. Avevamo amici tra gli italiani. Per noi era un dolore. Io, poi, avevo un buono stipendio dall’ambasciata».
Nella piccola cella rettangolare dove la televisione ha smesso di trasmettere i suoi programmi in bianco e nero Erich Priebke mi racconta di quel po’ d’Italia che ha conosciuto oggi. La gente sta meglio, afferma, e tutto oggi è così hektisch, di corsa, affannato. In Argentina era abituato a leggere il Corriere della Sera, ma adesso ha cambiato per Il Giornale: «E’ meno violento nei miei confronti. Non fa di me il mostro che non sono».
E quei sei milioni di ebrei periti nell’Olocausto non erano stati trasformati in qualcosa che non erano? Non erano stati deformati in simboli, il nazismo non aveva oscurato la loro esistenza di persone? Glielo chiedo a Priebke.
«Non c’era odio da parte nostra». Anzi, aggiunge, «a Roma non abbiamo neanche deportato ebrei. Quando nel ’43 è stata fatta la retata hanno fatto venire un commando speciale dalla Germania». Kappler, insiste l’uomo seduto di fronte a me sulla brandina, voleva proprio che Roma fosse una città tranquilla.
Tranquillo è anche lui. Non è annoiato dalle domande che gli sono state rivolte durante la giornata. Non è irritato. Non è teso. Le gambe accavallate sono immobili, le mani non si muovono quasi mai. Ogni tanto nella sua parlata italiana si infiltra un intercalare spagnolo. Entonce, Jefe e altre parole apprese in Argentina.
Lentamente si fa strada in me una sensazione di frustrazione. Non si riesce a capire se l’ossessiva ripetitività di quest’uomo piccolo, piccolo sia solo un mezzo per rimuovere una verità profonda nascosta sotto una scorza spessissima o se veramente nel corso degli anni le frasi ripetute e le giustificazioni ribadite siano diventate l’unica realtà possibile.
Il giorno della sentenza, racconta, ha provato paura, «ma capisco l’odio». Come se si trattasse di un evento naturale che sfugge totalmente alle sue responsabilità.
Provo a chiedergli cosa pensi della valenza politica del suo processo, che si svolge a cavallo di un’Italia che muta. E’ cominciato sotto un governo alleato alle destre, è proseguito sotto un governo tecnico, è terminato quando il paese si è dato un governo di centro-sinistra. «Lei ha la prova — gli dico — che la giustizia italiana ha pronunciato una sentenza non politica.
Non pensa?
Priebke non reagisce. Tutta la colpa, spiega, è solo del centro Wíesenthal di Los Angeles. «Io sono l’ultimo a cui davano la caccia». Delle sedute in tribunale ricorda soltanto che «tutti della parte civile erano ebrei».
Io lo ascolto e mi vengono in mente gli ultimi anni di guerra trascorsi in Svizzera. Via via che gli americani avanzavano e aprivano i lager, sui settimanali e sui rotocalchi apparivano le foto delle vittime dei campi di concentramento.
Le ho ritagliate tutte quelle foto, le ho tutte. E lì, nel carcere di Regina Coeli, mi rendo conto dell’immensa sproporzione tra i miei ricordi, le mie emozioni e la voce di quell’uomo così modesto. Io so il tedesco, gli spiego, proprio perché la mia famiglia è stata costretta a fuggire in Svizzera, «per causa vostra». E durante gli anni dell’esilio sono stato costretto a imparare il tedesco. Intorno a me un gruppo di secondini segue in silenzio. Sono attenti a che io non violi il regolamento e sono incuriositi per la presenza dell’uomo politico o forse perché ho i capelli bianchi e sono un ebreo.
Questo colloquio non mi dà niente. E’ così grande l’abisso tra il Fatto e la Persona. Il maggiore Dobrich si è rifiutato di compiere la rappresaglia, ma per Priebke non significa niente. Io parlo con tono volutamente normale, senza nessuna emotività, uso la sua lingua eppure per l’SS non c’è nessuna erità da ristabilire, niente da ripensare o da accertare.
«L’unica cosa – afferma il mio interlocutore – è il tempo che mi rimane prima di morire».
Sono stanco. Mi alzo e nella lingua di Thomas Mann dichiaro: «Non desidero trattenere più a lungo lei e i signori che sono qui presenti».
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agosto 3, 1996