«Normalizzare», nel caso di una formula matematica, significa compiere su di essa un’operazione che valga ad eliminare singolarità che disturbano. «Normalizzare» le Autorità indipendenti — numero dei componenti, modalità di nomina, durata in carica e, soprattutto, retribuzioni — è lo scopo di un disegno di legge in preparazione al Ministero della Funzione Pubblica. Sono veramente queste le «singolarità» che danno fastidio?
La domanda è legittima. L’iniziativa del Ministro Piazza viene dopo una lunga serie di manifestazioni di insofferenza verso le Autorità. Ricordo le principali: le polemiche del Ministero dell’Industria per il giudizio espresso dall’Autorità dell’Energia sul piano di liberalizzazione proposto dal Ministero stesso, e dopo che si erano tollerate le villanie di Franco Tatò; a seguito delle critiche dell’Antitrust alla legge sulle fondazioni bancarie, il sorprendente attacco del Presidente della Camera alle Autorità in generale, giudicate «autoreferenziali», i cui membri non sono eletti e dunque «non sono punto di incontro delle responsabilità politiche nei confronti dei cittadini»; la Consob lasciata sola dal governo dopo che il suo regolamento sulle Opa, che interpreta la legge nel senso di facilitare la contendibilità delle società, è stato bocciato dal Consiglio di Stato; quando Bankitalia ha negato le autorizzazioni al progetto di fusione Sanpaolo — Banca di Roma, e a quella Credit-Comit, enunciando una controversa teoria generale sulle Opa ostili, il Governo ha lasciato che divampassero le polemiche; l’indagine conoscitiva della Commissione Affari Costituzionali della Camera, iniziata dieci mesi fa, resta per ogni evenienza aperta. Non stupisce se in questo clima il 90% delle sentenze dell’Antitrust sono impugnate, e se in 2/3 dei casi il Tar ne decreta la sospensione.
Il paradosso è che sia il Ministero della Funzione Pubblica ad avviare la «normalizzazione»: infatti è per sfiducia nella pubblica amministrazione — oltre che per ovvie ragioni di efficienza — che si ricorre alle Autorità. Sfiducia che la burocrazia dei ministeri, da anni infiltrata dalle aziende (e dai sindacati) dei monopoli pubblici, sia imparziale nel fissare le regole durante la liberalizzazione dei servizi; sfiducia nell’efficienza della magistratura ordinaria nel proteggere i cittadini contro le intrusioni nella loro privacy, e i consumatori contro la pubblicità ingannevole.
Certo, anche le leggi istitutive delle Autorità contengono norme che andrebbero riviste: quando scrivemmo che le Autorità di settore devono avere sede fuori Roma era per rendere meno facile il travaso dai ministeri, non pensammo al pendolarismo di lusso Roma-Napoli; si è dimostrato che sarebbe opportuno fissare in legge, e non solo pretendere dal fair play delle aziende, il divieto per gli alti dirigenti di passare dall’autorità controllante all’azienda controllata.
Parliamo anche della questione meno «elegante», parliamo pure di stipendi. Le più vistose disparità, che penalizzano le Autorità di più vecchia costituzione, vanno corrette: ma non bisogna dimenticare che tutte le leggi istitutive delle Autorità prevedono per i membri e per i gradi superiori un trattamento economico sganciato dalle tabelle della P.A. Quella che ora ad alcuni appare una disparità da «normalizzare» non è un evento imprevisto, ma struttura portante, dato intenzionale del progetto.
Certo, le Autorità sono tutte diverse: per composizione, durata, nomina, stipendi. E allora? Il legislatore scrisse quelle norme in tempi diversi e avendo in mente scopi diversi. È vantaggioso per il funzionamento delle istituzioni renderle uniformi? Quelle retribuzioni sono uno spreco della Pubblica Amministrazione che si deve eliminare? Che un Governo non certo a corto di questioni politiche e di problemi operativi voglia prendere in mano un tema così spinoso e così poco necessario, è proprio questo a insospettire. Il pericolo è che il modello «normale» finisca per essere quello del parlamentino eletto con voto di lista, lo sciagurato esito di una concezione politica dell’Autorità delle comunicazioni: non a caso quella che ha suscitato critiche non del tutto immotivate.
Le Autorità sono strumenti di efficienza e di garanzia: il loro bilancio è, in assoluto e ancor più per confronto, indubbiamente positivo. Invece che pensare di «normalizzarle» con leggi quadro, bisogna cercare di renderle più incisive. Ad esempio: è giusto che le delibere delle Autorità, che toccano diritti dei cittadini, siano sottoposte al giudice amministrativo; ma si dia almeno alle Autorità la possibilità di difendere in giudizio le proprie delibere: il Tar del Lazio non può diventare di fatto una specie di super-Antitrust o super-Consob. Né si lede la sovranità del Parlamento ricordando che è l’odierna lettura del dettato costituzionale ad esigere che le leggi proteggano il mercato e promuovano la concorrenza: come i pareri dell’Antitrust puntigliosamente non mancano di ricordare.
Un pericolo c’è ma è opposto a quello che vedono i fautori della «normalizzazione»: che le Autorità perdano per strada le proprie diversità. Il pericolo è che perdano l’indipendenza con cui i devono garantire, che «costruiscano» il mercato con le loro norme anziché liberarlo, che diventino come le burocrazie che dovevano sveltire. Qui serve l’attenzione critica e vigile dei mezzi d’informazione e dell’opinione pubblica. Le Autorità sono corpi estranei al nostro ordinamento amministrativo, la loro estraneità dà fastidio: ma è proprio quando non dessero più fastidio che dovremmo preoccuparci.
novembre 17, 1999