Il contrasto euro americano sulla flessibilita’ sociale e dei mercati, emerso con durezza a Denver, ripropone agli occhi degli italiani e degli europei avvertiti la vera radice del male che ci colpisce e dell’illusione con cui molti politici europei si ostinano a volerlo curare.
Negli ultimi 20 anni il tasso di disoccupazione in Francia, Germania ed Italia si e’ piu’ che raddoppiato, in costante progressione, (salvo una breve inversione di tendenza nel periodo 89-91). Al contrario in USA la disoccupazione e’ oscillata intorno al 6%, ed oggi e’ dimezzata rispetto al 1991, punto minimo della recessione. In vent’anni in Europa si sono distrutti 2 milioni di posti di lavoro: in USA se ne sono creati 38 milioni.
L’euro nasce dalla condivisione di un paradigma economico: la politica di bilancio deve essere sostanzialmente in pareggio, senza ricorso ai debiti per finanziare disavanzi; la politica monetaria deve garantire la costanza del potere di acquisto. Il vincolo di bilancio e’ costituzionalizzato – come condizione di ingresso dal trattato di Maastricht, come vincolo permanente dal patto di stabilita’-; l’obbiettivo antiinflazionistico e’ affidato alla Banca Centrale Europea di cui si garantisce l’indipendenza.
Si riconosce che e’ pericoloso finanziare la crescita coi debiti, e che l’inflazione ha un effetto devastante per gli individui e distorcente per le imprese. Si rinuncia ad addossare alle generazioni future il pagamento dei debiti contratti da quella presente: Keynes e’ morto. Per ridurre la disoccupazione l’Europa offre “solo” le opportunita’ di un grande mercato unificato nella moneta; ma poiche’ essa dipende da caratteristiche strutturali dei singoli mercati interni, per il principio di sussidiarieta’, spetta ai singoli Governi modificarle: paese per paese, in concorrenza tra loro.
Si e’ discusso della velocita’ con cui i bilanci nazionali convergevano verso l’obbiettivo, su chi ce l’avrebba fatta subito e chi no, sui “trucchi” leciti e su quelli vietati: ma il paradigma non era mai stato messo in discussione. L’ha fatto Jospin ad Amsterdam, chiedendo che la lotta alla disoccupazione diventasse obbiettivo della politica economica comune. Solo che al male – la disoccupazione- si contrappone un’illusione: per questo l’iniziativa di Jospin non e’ stata il riscatto di un’Europa dimenticata – come molti in Italia ritengono- ma il piu’ grave rischio che ha corso il progetto di moneta unica.
Infatti le proposte implicite ed esplicite di coloro che all’ultima ora interpretano il malcontento degli elettori europei si riducono in fondo a: grandi lavori pubblici finanziati in comune; un euro debole che ridia competitivita’ alle merci europee; barriere protezioniste per penalizzare le importazioni.
Ma le grandi opere incontrano difficolta’ non solo di natura finanziaria, e se sono redditizie possono essere finanziate da capitali privati; un euro debole comporta la svalutazione del patrimonio, e importa inflazione; il protezionismo danneggia nel breve i nostri consumatori ed i paesi che stanno uscendo dalla poverta’, e alla lunga le nostre stesse imprese.
Proporre questi strumenti di lotta alla disoccupazione ha il torto di non vedere che essa dipende da precisi fatti strutturali, regole dei mercati del lavoro e dei capitali, forme dei sistemi fiscali e industriali, che hanno la caratteristica di essere diversi da paese a paese. Significa negare che si debba incidere nel vivo di questi problemi.
Oltre ad essere sbagliate come ricetta, queste proposte hanno l’ulteriore difetto di fondo: quella di essere lette come la negazione dei presupposti stessi su cui si era convenuto a Maastricht: regole condivise di politica fiscale e monetaria e sussidiarieta’ per il resto. E cio’ ulteriormente squilibra il gia’ delicato equilibrio tra autorita’ politiche elette – cui spetta la politica di bilancio – e autorita’ non elettive – i banchieri centrali cui spetta la politica monetaria. Se viene a mancare il ferreo accordo sulla prima, la seconda viene sovraccaricata di un compito alla lunga insostenibile. E’ proprio l’emergere di questo squilibrio che fa riproporre – per ragioni affatto nuove – la necessita’ di un’Europa politica che faccia da contraltare al solitario potere dei banchieri.
Di questa necessita’ si era gia’ discusso a lungo. La conferenza intergovernativa si proponeva di dare all’Europa un obbiettivo, una politica estera e di sicurezza comune, una gestione comune dell’allargamento ad est. Alcuni evidenziavano la fragilita’ di una costruzione che ha al centro poteri cosi’ limitati per gestire shock asimmetrici, e compensare le differenze negli effetti che essi inevitabilmente produrranno su economie cosi’ diverse tra loro.
Al vertice di Amsterdam Jospin, e chi la pensa come lui, ha avuto il torto di legare l’Europa politica – quella che ancora manca nel trattato – con la ricetta sbagliata per la lotta alla disoccupazione. Blair, alla testa di un paese che continua a diffidare dell’Europa politica, invece ha proposto la ricetta giusta: meno tasse, piu’ flessibilita’.
Al G8 di Denver Clinton ha mandato un messaggio chiaro all’Europa: gli USA stanno con Blair, con la flessibilita’ di quella parte della sinistra europea che ha compreso – come ha detto ieri Giuliano Amato – che per curare il male del nostro continente il risanamento della finanze pubbliche non basta, se non si accompagna ai due pilastri, altrettanto importanti, della liberalizzazione dei mercati e della revisione dalle fondamenta delle istituzioni sociali. E Giuliano Amato ha ragione su un punto di fondo: buona parte della sinistra europea e’ lontana di questa consapevolezza.
Ecco perche’ un paese come l’Italia ha davanti a se’ un rischio e una scelta. Il rischio e’ quello, volendo da sempre e giustamente un’Europa politica, di abbracciare per questo la ricetta economica sbagliata; la scelta di conseguenza, per Prodi come per Ciampi – che nei resoconti sia di Amsterdam che di Denver sono stati posti nel campo del no alla flessibilita’ – e’ invece quella di battersi perche’ l’Europa politica segua per l’occupazione la ricetta Blair e non rinneghi i principi costituzionalizzati a Maastricht, non si allontani pericolosamente dal polo anglosassone delle alleanze occidentali.
Come ha scritto Barbara Spinelli sulla Stampa di ieri, l’Europa deve riappropriarsi di una “cultura del divenire”, riscoprire in se’ un’essenza che dia forza alle sue aspirazioni.Ma questa essenza difficilmente puo’ essere identificata nella economia sociale di mercato, alla quale gia’ il tante volte ricordato Erhardt rimproverava un eccesso di interventismo statale. L’essenza europea non e’ nella scuola di Friburgo di Alfred Muller-Armack: e’ invece nella scuola di Vienna, nei Mises e negli Hayek che seppero vedere prima del compiersi tragico degli effetti dei totalitarismi di ambedue i colori, quanto di cio’ si doveva a un’erronea concezione dello stato nell’economia. Essi erano europei a tutti gli effetti.
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giugno 23, 1997