A giorni il disegno di legge sulla subfornitura sarà discusso dal Senato in aula. Se passasse l’emendamento con cui propongo di sopprimere l’art. 1, cadrebbero le definizioni dei termini, quindi l’intera proposta: si eviterebbe così di approvare una legge sbagliata, che resterebbe dannosa anche se fosse emendata delle sue parti meno accettabili. Alcune dí queste sono già state eliminate, rispetto al testo presentato nella passata legislatura: ad esempio, la disposizione — francamente un po’ grottesca — con cui si richiedeva una fidejussione del legale rappresentante dell’azienda cliente per ogni contratto di fornitura.
Uno dei punti su cui vivace è stato il dibattito, anche sulla stampa, è quello che fissa la forma di pagamento a 60 giorni dalla consegna, e subordina la liceità di altri termini ad accordi con le organizzazioni di categoria. Disposizione di dubbia validità costituzionale, posto che questa all’art. 41 sancisce che «l’iniziai iva economica privata è libera», ed è arduo sostenere che un pagamento liberamente pattuito tra le parti (anche senza l’assistenza di — libere? — associazioni private) a 90 anziché a 60 giorni sia «in contrasto con l’utilità sociale», tale «da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Così come sarebbe di dubbia costituzionalità una legge che ad esempio proibisse le vendite rateali.
Ma una legge non parla solo con le sue norme, una legge esprime una cultura e influenza la cultura. Qui stanno gli aspeti i più negativi della legge, quelle per cui non dovrebbe essere approvata.
1. È negativa per la cultura giuridica: non si può approva, e una legge che non definisca la fattispecie a cui si applica. Come definire il rapporto di subfornitura? Che cosa la distingue dalla fornitura? Se ne è discusso per ore: non fosse stato per un mio emendamento (accolto), sarebbero subfornitura anche le lamiere che Ilva vende a Zanussi, o l’energia elettrica con cui l’Enel alimenta i forni di Lucchini. E restano subfornitori, sullo stesso piano, i colossi come Bosch o Valeo e l’artigiano che fornisce un modello in legno. Senza definizione della fattispecie, una legge produce solo confusione, che la giurisprudenza non potrà che mentare. E con la confusione aumenteranno i costi di transazione.
2. È negativa per la cultura economica. Nasce dall’idea che il rapporto di fornitura determini di per sé una subalternità di chi vende rispetto a chi compra. Non vede i (sub)fornitori come giocatori nel mercato concorrenziale, in cui tutti — fornitori e clienti — elaborano le proprie strategie, ma come sudditi in un mercato monopsonistico, dove i soli clienti sono aziende con poteri di monopolio o lo Stato. Invece di trarre spunto per una iniziativa di tipo strutturale, volta a ridurre le attività economiche intermediate dallo Stato — quello che paga sovente a 600, non a 60 giorni! — e a eliminare i monopoli residui, si carica l’Antitrust di compiti aggiuntivi, per giunta mal definiti Invece dí favorire forme di integrazione o associative che spingano i fornitori a superare condizioni di subalternità nei confronti di un unico cliente, si tende a ingessare questa debolezza, stendendo su di essa una sorta di rete di protezione. Sembra che questa legge voglia prendersi una rivincita, ricomponendo idealmente la catena di montaggio della fabbrica fordista, dopo che la sverticalizzazione l’ha spezzata, rilocalizzandone pezzi presso i fornitori. Ben di più invece hanno significato le nuove tecniche organizzative della produzione: non solo enormi aumenti di produttività, ma crescita dei fornitori, in termini di fatturato, soprattutto di complessità dei compiti loro affidati. I grandi produttori hanno ridotto drasticamente il numero dei propri fornitori, affidano loro compiti di progettazione, di riduzione di costi, di ingegnerizzazione: e si parla addirittura di inserirli nel montaggio finale. Oggi la rete dei (sub) fornitori è una aria dinamica dell’economia italiana. Ma tutto ciò resta fuori dalla visione dei proponenti di questa legge.
3. È negativa per la cultura legislativa. Limita — in modo, come si è detto, di dubbia costituzionalità — forme contrattuali che, se sono invalse nell’uso, sono evidentemente funzionali agli scambi. Lo sfruttamento della mano d’opera è altra cosa e va altrimeni combattuto. Per reprimere i casi reali di abuso e di prepotenza, in primo luogo l’arbitrario ritardo di pagamento rispetto alle clausole contrattuali, non serve ricorrere all’aumento delle sanzioni, arma spuntata in mano a una giustizia civile così scandalosamente lenta. Siamo quindi di fronte a un tipico caso di «malo uso del comando», di «illusoria ricerca dell’efficacia», per dirla con Tommaso Padoa Schioppa, quella per cui «regolamenti, divieti, autorizazioni si sono cumulati, spesso in modo incoerente e controproducente». Non ci si lamenti poi se si obbliga il mercato a «vendicarsi» del «malo uso del comando».
febbraio 27, 1997