Se fosse vero quello che ambiguamente fanno intendere i sindacati, e cioè che con il referendum si legalizzano i licenziamenti ingiustificati, ovviamente voterei No. Invece così non è, il divieto di licenziamenti antisindacali o discriminatori rimane in vita esattamente come prima; abrogando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si leva solo ai giudici il compito di stabilire se è vero o no che un’azienda non ha più lavoro da dare, e quindi il potere discrezionale di ordinare il reintegro del lavoratore licenziato: magari dopo due anni di incertezze per tutti.
Certo c’è un’enorme differenza tra il quesito referendario e la proposta di legge da me avanzata più di tre anni fa. Quella che io proponevo non era la pura eliminazione della tutela, ma una sua redistribuzione: di meno ai lavoratori supertutelati, quelli con contratto a tempo indeterminato, ormai minoranza nel Paese; di più alla massa crescente di lavoratori parasubordinati, che oggi ne sono del tutto sprovvisti. «Abbassare le mura e allargare le porte della cittadella delle tutele» diceva Pietro Ichino, ai cui lavori mi ero ispirato. I sindacati hanno fatto muro e così ci resta solo il referendum. Se sarà bocciato, di riformare un istituto che esiste solo in Italia tra i paesi europei non si parlerà più per anni. Se invece sarà approvato, si troverà subito una maggioranza parlamentare per varare una legge che riequilibri l’edificio delle tutele. Questa è la scelta su cui si devono pronunciare gli elettori il 21 maggio.
«La missione del centrosinistra è una politica capace di azioni coraggiose che hanno bisogno di fiducia per eliminare l’incertezza» ha detto in Senato Giuliano Amato presentando il suo governo. Noi vogliamo sottrarre i rapporti economici alle incertezze di un giudizio, vogliamo dare certezze: alle imprese certezze dei costi, ai lavoratori dei propri diritti.
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maggio 11, 2000