La ricomposizione della crisi è un fatto positivo: ma il prezzo pagato è chiaro ed è duplice. Sul piano degli equilibri politici, ha sicuramente ragione Prodi a sostenere che «il governo è lo stesso e non ha cambiato natura»; tuttavia osservatori interni ed internazionali dei più diversi orientamenti hanno concordemente rilevato che a mutare segno è stata la coalizione, accentuando ancor più il peso della componente di sinistra. Sul piano dei contenuti stanno l’accettazione, sia pure rinviata nel tempo e rimandata alla contrattazione tra parti sociali, del principio della riduzione dell’orario a parità di salario, e la rinuncia a incidere sul nodo previdenziale. Quanto agli altri due punti – il rinvio sine die delle privatizzazioni di Enel ed Eni, e la nuova missione per l’Iri – è un mistero se il governo si riterrà vincolato alle promesse fatte da Prodi o se si avvarrà del silenzio osservato a crisi risolta.
Si direbbe dunque che abbia ragione Massimo Giannini quando scrive che il patto che ha posto fine alla crisi ci dà l’illusione di schiuderci le porte del regno di Armonia, in realtà ci sprofonda nella botola dell’irrealtà economica. Si direbbe che sia nel giusto Lionel Barber quando sul Financial Times parla di «una tragedia italiana». Eppure a guardar bene non è così. Non solo perché, come molti hanno osservato, per come si erano messe le cose, la priorità andava assegnata a una soluzione che non intaccasse a questo punto la tanto sofferta probabilità di superare l’esame dell’euro nel maggio 1998. No, a guardar bene, proprio i due prezzi pagati per questo terremoto politico possono essere visti o come la perdita secca per una distruzione, o come la spesa per una ricostruzione.
Spieghiamoci. Se ieri, a sole 72 ore dall’annuncio dell’accordo con Rifondazione sull’obiettivo delle 35 ore al 2001, Prodi ha dovuto precisare alla Camera che il governo «non intende scavalcare in nessun modo le parti sociali né regolare le relazioni industriali per legge», ciò si deve alla confortante eterogeneità delle tribune dalle quali in così poco tempo è venuto un no ricco di argomenti e non di pregiudizi. In un modo che io stesso, scrivendone sulle gazzette e discutendone nel Paese, non avrei saputo augurarmi. Sotto il profilo dei contenuti, in altre parole, aver dichiarato di assumere impegni tanto opinabili per evitare tuttavia un male peggiore, obbliga adesso, evitato il peggio, a trattare temi che in ogni caso avremmo dovuto affrontare, e a farlo con meno ipocrisia.
Ma è proprio sul terreno degli equilibri politici della coalizione, a ben vedere, che una partita in apparenza oggi compromessa ha invece in sé un dato che la riapre. Fino a che l’euro parte, è di Rifondazione che non si poteva fare a meno. Da maggio in poi il vincolo non sarà più l’entrata nell’euro, ma la vita nell’euro. A quel punto in primis per Prodi e D’Alema si porrà il problema delle risposte da dare non più a Bertinotti e a Cossutta, ma a coloro che, come Giuliano Amato e Mario Monti, indicano la strada di una flessibilità e di una competitività non disgiunta né contrapposta al riformismo sociale. In quel momento i moderati che guardano a questa ricetta potranno contare su una libertà di gran lunga maggiore di quella oggi riconosciuta alla sinistra estrema. Da maggio in avanti le possibilità di avviare questo Paese verso la modernità rimangono quelle di prima, intatte: a patto che da quel momento chi crede nel mercato sappia far sentire tutta la voce che oggi ha dovuto tenersi in corpo.
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ottobre 17, 1997