Un passo indietro: questo significa la vicenda Enel-Infostrada per la nostra politica economica. Aver riportato indietro di diversi anni l’evoluzione in senso moderno dl nostro capitalismo: questo è il danno più grave che ha arrecato al paese.
Si avverte leggendo i giornali, discorrendo con parlamentari e con operatori economici.
Riaffiorano argomenti che erano diventati desueti, quelli, per intenderci, del tipo: perché un’azienda pubblica non dovrebbe potersi espandere? perché negare al pubblico ciò che è consentito ai privati? perché “svendere” oggi quando si può incassare di più domani? Se rende, perché vendere? Perché no, se fa concorrenza all’impresa dominante?
Tutto il bric-à-brac degli statalisti nostrani, così diverso dalla coerenza dei colbertisti transalpini: là la presenza dello stato nell’economia è un obbiettivo dichiarato, qua un Proteo di cui approfittare. Il nostro è lo statalismo delle società miste, delle aziende pubbliche a cui i privati partecipano con quote minoritarie: il modello delle sub-holding dell’IRI, Stet, Finmeccanica, Finsider e via finendo.
Sembra di essere ritornati indietro ai tempi delle prime discussioni sulle privatizzazioni, quelle sul decreto Ciampi 389/93 poi diventato legge 474. Allora non si riuscì ad assumere come obbiettivo primo delle privatizzazioni, a cui subordinare tutti gli altri, quello lapidario di Lord Lawson: “ the business of Government is not the government of business”. Ma intanto si iniziò a privatizzare e il processo sembrò divenuto irreversibile quando Ciampi al Tesoro compì il capolavoro di privatizzare Telecom in un colpo solo. Anch’egli poi egli dovette approvare la vendita di una tranche dell’Enel prima che iniziasse la liberalizzazione del mercato elettrico: ma fece valere l’obbiettivo del risanamento finanziario per esigere dall’Enel i proventi del monopolio, 7000 miliardi come maxidividendo e corrispettivo della vendita dell’Acquedotto Pugliese. E quanto a Wind accettò l’operazione ma ponendo paletti per l’uscita dell’Enel dall’avventura telefonica. Confidò che venissero rispettati.
Un passo indietro le cui conseguenze si faranno sentire. Perché mai l’impegno a dismettere dovrebbe valere per gli enti locali e le loro municipalizzate? Perché dovrebbe valere per le fondazioni bancarie? Perché per la RAI? Perché non pazientare finché le Ferrovie avranno attuato un risanamento sempre rinviato (e una privatizzazione anch’essa col passo del gambero) e nell’attesa decidere di dare altri 48.500 miliardi? Perché negare alle Poste, in premio perché le lettere incominciano ad arrivare, la possibilità di occupare settori che possono essere ( e magari già sono) terreno di possibile sviluppo per l’imprenditoria privata, addirittura estendendo l’area di esclusiva, come è stato fatto?
Anche se non era esplicitamente affermato, il principio che lo stato dovesse uscire dalla gestione diretta delle attività economiche lo si poteva desumere dalla continuità delle azioni degli ultimi otto Governi: fino a ieri. Oggi si è avviato un processo involutivo, simbolicamente incarnato proprio da Giuliano Amato: che l’11 Luglio 1992 trasformò gli enti pubblici – IRI ed ENI – in società per azioni e ne azzerò i consigli di amministrazione; e l’11 Ottobre 2000 dà il suo avallo a un’azienda a partecipazione statale perché entri a vele spiegate in una nuova avventura acquistando un’azienda privata.
Ci fosse almeno una ragione impellente per farlo; o, come nel caso RAI, l’impossibilità politica a fare diversamente. Invece non ci sono giustificazioni, e quelle che ora vengono avanzate aggravano ancora il danno che il fatto stesso arreca al paese.
Ad esempio quando l’azienda invoca i rapporti tra aziende pubbliche e private in tema di concorrenza. E’ vero, per la Costituzione del 1946 la proprietà privata è quasi contrapposta all’interesse generale, e non come il mezzo più efficace per perseguirlo. E’ vero, l’atto di nascita della Comunità Europea del 1957 non discrimina, ai fini della concorrenza, tra proprietà pubblica e proprietà privata. Ma sono passati 40 anni, e dal 92 ad oggi otto governi hanno perseguito un indirizzo di politica generale che sussume gli articoli del Trattato di Roma come le regole minime e va oltre: lo spazio per l’iniziativa economica è riservato, ovunque sia possibile, ai privati; l’obbiettivo vero è la concorrenza tra operatori privati.
Invece di interrogarsi sul perché la concorrenza a un privato lo fa il pubblico anziché un altro privato, si guarda la cosa con compiacimento. Un altro po’ e quello di fare concorrenza ai privati diventerà la missione dell’azienda pubblica. Uno sgradevole dèjà vu, che ricorda l’IRI e la sua missione di investire al posto dei privati.
Analogo discorso quando il Ministro Visco giustifica l’operazione come prodromica al vero obbiettivo, la vendita di Enel, e accusa di mancare di visione strategica chi non sa vedere oltre l’operazione di oggi, e di commettere una sciocchezza chi perde tempo a suggerire modi alternativi di compierla. Non si dubita che questo sia l’obbiettivo del ministro ma sia consentito fare osservare che esso manca di precisione, di definizione e di certezza. Di precisione, perché il Ministro non dice se per “vendere” intende “perdere il controllo”; di definizione perché non dice quando l’operazione dovrebbe andare a termine; di certezza perché che sia in grado di realizzarlo è solo un augurio che gli rivolgiamo.
Nell’attesa, il mondo non si ferma: per un numero imprecisato ma non piccolo di anni, a modellare il mercato, a influenzare le decisioni degli imprenditori privati, a determinare chi inizierà imprese e chi farà investimenti, non sarà il desiderio di Visco ma la presenza dell’Enel: un’azienda di stato ma destinata a non essere tale; delle cui scelte strategiche risponde politicamente il Governo, ma che sono dettate da un vertice che dichiara seguire solo logiche privatistiche. Un’anomalia piantata per molti anni nel bel mezzo di un settore dove ogni giorni avvengono tanti fatti nuovi.
Ormai l’acquisto di Infostrada è stato deciso, di esso giudicheranno mercati e opinione pubblica. Ma la partita non è chiusa. In questi pochi mesi, il Governo ha ancora la possibilità di scegliere se vuole essere ricordato come un governo liberalizzatore, oppure captive del monopolista. Prima di tutto decida di non lasciare all’Enel i proventi della vendita delle GenCo, cosa che tra l’altro faciliterebbe la vendita di una seconda tranche di azioni Enel. E poi non lasci il solo Ministro Letta a tirare per accelerare la liberalizzazione del settore elettrico.
Anticipare la vendita delle Genco a prima della fine di questa legislatura, decidere subito di vendere altri 15.000 MW, far partire i siti per nuove centrali: queste cose sì che il Governo ha ancora il potere per farle. Basta volerlo.
ottobre 13, 2000