Consummatum est. Non si salvano più neppure le apparenze. Era sembrato che, per evitare il referendum per l’abolizione dei voucher, questi restassero per l’improbabile uso domestico e per i lavori intermittenti. Ma ha prevalso la paura che questo non basti, l’ansia di evitare anche la minima possibilità che la Corte di Cassazione lo ritenga non sufficiente ad evitare il ricorso al voto popolare.
Inoltre la paura che questo possa galvanizzare gli oppositori per ripartire ad attaccare anche quel che resta del Jobs Act, l’abolizione dell’art. 18, sono stati tali da indurre il capogruppo del Pd, Ettore Rosato a presentare la proposta di recepire in tutto i quesiti referendari: per i voucher, abolizione totale (al massimo lasciando la possibilità di uso per le famiglie); per gli appalti, responsabilità solidale dell’appaltante. Per «evitare distorsioni» è la giustificazione ufficiale. Il Pd è di nuovo il partito della Cgil: fine della “distorsione”. Un passo indietro di vent’anni; anzi peggio, nessuno oggi che sappia dire “Dottoressa Camusso!”: D’Alema, adesso, è dall’altra parte.
E potrebbe perfino non essere finito qui. Perché anche questa iniziativa referendaria, come quella precedente bocciata dalla Corte, volta ad estendere l’art. 18 anche alle aziende con più di 5 dipendenti, aveva la neppur tanto segreta intenzione di far da traino al vero obbiettivo della Cgil, la “carta dei diritti universali del lavoro”: un titolo che riecheggia la “Dichiarazione dei dritti universali dell’uomo” del 1948, con Susanna Camusso nel ruolo che allora fu di Eleonore Roosevelt. Un testo di 87 articoli grazie a cui i lavoratori godrebbero «dei più avanzati diritti di quelli mai concepiti da mente umana, ma le aziende chiuderebbero e gli imprenditori che possono farlo, fuggirebbero altrove», come scrive Giuliano Cazzola sul Foglio. Un proposito assurdo, un’iniziativa che dovrebbe essere considerata nient’altro che il portato di una minoranza nostalgica di un tempo passato, con specializzazioni industriali, sistemi produttivi, rapporti economici che non esistono più.
E poi vorremmo parlare di innovazione, di applicazione di nuove tecnologie, di start-up. Ma la sharing economy è fatta di modi per usare più razionalmente, grazie anche alla tecnologia, ciò che già esiste e non viene sfruttato, di algoritmi che estraggono valore organizzando i dati che continuamente produciamo, di piattaforme che permettono di sfruttare più intensamente i beni che possediamo, di modi di ridurre tempi e costi per ottener beni e servizi. Anche i voucher potrebbero essere un modo di usare la disponibilità di lavoro e il capitale umano oggi utilizzato in modo non trasparente: bisognerebbe cercare di usare la tecnologia per inventarsi il modo di rendere il loro uso più qualificato, garantito e flessibile.
Conta, e resta, il segno dei messaggi che si mandano. E quelli usati contro i voucher vanno tutti nella direzione sbagliata. Si è usato il vecchio trucco di usare numeri grandi per raccontare storie false: i 134 milioni di voucher venduti nel 2016 paiono tanti, sono meno dell’1% rispetto alla decina di miliardi di ore di lavoro complessive annue in Italia. Li si è demonizzati dicendo che servono per sostituire lavoro “regolare”: certo che nella massa si nascondono anche casi del genere, ma quanti sono rispetto al lavoro in nero, senza contributi e senza assicurazione che c’erano prima della loro introduzione, e ci saranno con la loro eliminazione? Si sono accusati i padroni di volerli usare per pagar di meno: ma i motivi economici sono sempre un tentativo di sfruttamento dei lavoratori? Dei costi che si vuole evitare quanti sono quelli contributivi e quanti quelli di adeguamento alle complessità burocratiche? Invece di metter le mani su questo che è uno dei difetti maggiori del mercato del lavoro, si vogliono eliminare i buoni lavoro che offrono un’opportunità di semplificazione degli adempimenti burocratici ed amministrativi. Serviva altro per dimostrare che l’abolizione dei voucher danneggia lavoratori e imprese?
Ma è il dato politico quello che fa impressione. La fine che fa un progetto politico, le riforme renziane, che ha appassionato milioni di elettori, non solo i mitici e lontani 41% delle europee, ma anche il 40% degli elettori che hanno votato sì il 4 Dicembre. Sono loro, la loro aspettativa che si trattasse davvero della svolta riformista, i veri sconfitti in questa che è una partita tutta interna alla sinistra. Sembra quasi ci fosse premeditazione nei transfughi di Movimento Democrazie e Progresso quando anteposero nella loro sigla il richiamo all’articolo 1 della Costituzione. E che la causa referendaria venisse fatta propria dal più disinibito degli avversari di Renzi all’interno del Pd stesso, Michele Emiliano, anche questo era prevedibile.
Tutto vento che gonfia le vele al M5S: questi, non avendo un progetto organico, non devono subire lacerazioni, passare attraverso tormenti identitari per raccogliere naturaliter proteste e scontenti, gli uni e le altre convogliando a sostegno delle sue salvifiche proposte, reddito di cittadinanza e uscita dall’euro. Così il Pd finisce per lavorare per il re di Prussia.
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