In «Una storia operaia» Riccardo Ruggeri racconta la sua vita, dall’infanzia in una famiglia proletaria ai piani alti del gruppo Fiat, fino ai vertici di grandi imprese multinazionali. E spiega come ha imparato la «govemance»
La storia è, classicamente, storia di fatti. Oppure biografia, storia di «vite di uomini illustri». O ancora autobiografia, storia della propria vita e dei fatti di cui si è stati personalmente partecipi. Questa storia è diversa, costruita com’è da ritratti di persone incontrate. Chi è il protagonista? L’autore in quanto è lui presente in ognuno di quegli incontri? O l’altro, i personaggi incontrati e rappresentati? E una storia precisa, tempi, luoghi, ambienti sono ben definiti; ma può essere percorsa in molti modi, in molti modi si possono collegare i vari ritratti.
Avendo a disposizione una molteplicità di percorsi di lettura, il lettore alla fine si chiede perfino quale storia l’autore abbia voluto raccontare. Quella della propria vita o quella di una famiglia? Quella della Fiat, dalla fonderia del nonno alla multinazionale del nipote? Oppure questa è una storia di stili di management, dal ferreo centralismo vallettiano, al diafano policentrismo dei consulenti? O è la storia di un pezzo di società torinese, da «quel variegato grumo di vite che si è agitato, a cavallo degli anni Quaranta, al civico 9 di piazza Vittorio Veneto», alle promiscue contiguità della Torino di oggi, tra la razionalità delle nuove «spine» e il degrado di alcuni quartieri?
Chi sceglie di raccontare una storia attraverso le persone incontrate ha evidentemente, per le persone, un interesse molto particolare. C’è sì il desiderio di capirle e di coglierne l’individualità, ma c’è anche l’attenzione all’intersezione tra due vite, due interessi, due modi di guardare il mondo.
C’è continuità tra il ragazzino che dalla portineria osserva gli andirivieni dello «spaccato di un perfetto modello di integrazione sociale fra le varie classi», e il manager di successo che si attarda ad «affabulare in trattoria con il capo del Sismi perché riconosce «la simpatia umana trattenuta, presente spesso negli uomini delle marche di frontiera».
Visti dalla portineria, gli «erano tutti antipatici, padroni e servi». Crescendo avrà simpatie e antipatie, entusiasmi e delusioni, ammirazione e dissenso. Rari ma profondi disprezzi, come quello per gli «intolleranti, a parole filo operai, in realtà borghesi filo se stessi, profumati al musc». Resterà sempre, nel proprio modo di rapportarsi agli altri, la coscienza delle proprie radici diverse. È in ragione di questa diversità, rimasta nonostante le vicende in cui la sua vita si è dipanata, e i successi che ha colto, che quella che racconta è «una storia operaia». Dove «operaia» non rimanda tanto a connotazioni di classe o di censo, quanto a un modo di porsi verso gli altri. E nello sguardo con cui li osserva, con silenziosa fierezza, con lentezza, direi: lo sguardo del ragazzino della portineria. Era quindi quasi ovvio che chi sa guardare con tanta attenzione agli uomini, a come si muovono sotto le spinte degli interessi e delle passioni, finisse presto per occuparsi professionalmente del «personale», poi diventato «risorse umane», e quindi alla geometria delle organizzazioni aziendali. E stato in quel periodo che ci siamo conosciuti. Se il periodo in cui abbiamo lavorato insieme è stato breve (poco meno di due anni) e l’amicizia invece solida e duratura, dipende – faccio un azzardo – dal fatto che quello è stato un momento in cui tutti e due abbiamo goduto di una grande libertà: abbiamo sostanzialmente potuto fare, professionalmente, quello che volevamo. Anche perché entrambi eravamo, nel profondo e senza rendercene conto, uomini liberi. In Fiat il gioco di potere era nell’equilibrio tra Tufarelli e Beccaria. Il fatto che nel settore componenti, dove ero stato officiato direttamente da Umberto Agnelli, avessi smantellato definitivamente il disegno megalomane di Rossignolo, tranquillizzava i capi degli altri settori, le occhiute staff, l’azionista: il settore produceva utili. La competizione interna tra il costruttore di componenti e il produttore di «ruote» divertiva l’Avvocato. Io avevo, per la prima volta nella mia vita professionale, la possibilità di guidare una grossa macchina secondo i miei criteri; Riccardo Ruggeri aveva la libertà che voleva di provare sul campo modelli di organizzazione e di sviluppo. Il settore componenti, pur nella sua dimensione globale di poco meno di quarantamila persone, era costituita, oltre che dalla grande Magneti Marelli, da un gran numero di aziende medie, alcune anche piccole.
Istintivamente, dagli anni in cui avevo lavorato nella società di famiglia, consideravo le aziende come fossero persone, persone che hanno il loro carattere, che sono esigenti, che vanno rispettate e capite. Riccardo aveva portato nella professione il suo innato interesse per le persone. Avevamo dunque lo stesso modo di rapportarci a oggetti diversi. In quel periodo relativamente breve si è concentrata una grande accelerazione nell’evoluzione professionale. Poi le nostre strade si sono separate, e Ruggeri ha perfezionato, applicato e quindi teorizzato la sua specialità: costruire aziende a partire da uomini. Ma la decisione quasi istintiva, di pelle, con cui decisi di smantellare la struttura «command and control» che Rossignolo aveva iniziato a costruire, per gestire invece quel grosso, complicato e diversifiCato settore con una struttura di governo di una dozzina di persone, è la versione grezza di quella che Ruggeri porterà a perfezione, riuscendo a gestire, con un centro ridicolmente – rispetto a tutti gli esempi correnti – esiguo (20 persone ubicate in un modesto ufficio nella periferia di Londra), una multinazionale presente in 140 paesi, con una decina di Marchi, 22 stabilimenti in 4 continenti, 32mila dipendenti. Da parte mia, lo trasferii in Olivetti, nella gestione di quella che poi sarà Olivetti Information Services, le attività software e servizi dell’azienda informatica.
Il problema della governance, nella sua più ampia accezione, sia societaria sia aziendale, ritorna continuamente nelle riflessioni di Ruggeri, fino a costituirne uno dei fili rossi, l’angolo visuale dal quale guardare persone e situazioni. Perfino la Chiesa gli appare come una funzionalissima organizzazione a due livelli.
A ben vedere, anche nella portineria il giovane Riccardo aveva avuto modo di riflettere sulla governance, di questo parlano le due straordinarie frasi che riporta di suo padre, una in particolare: «Noi operai, a differenza dei borghesi, abbiamo la schiena dritta e siamo ricchi di valori veri, che difendiamo comunque, senza scendere mai a compromessi». Aveva poi visto in famiglia, in corpore vivo, che cosa in realtà significasse la governance operaia dei giorni della Fiat commissariata.
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settembre 6, 2009