«La bella storia di Orlando innamorato e poi furioso»: il titolo del saggio di Panzini riaffiora dalle memorie adolescenziali con la suggestione di una parafrasi: “la storia di noi, di Renzi innamorati e poi furiosi”.
Perché “innamorati” lo fummo. Quando liberò il partito da retaggi culturali abiurati ma non abbandonati, da presenze marginalizzate ma ancora ingombranti. Quando eliminò l’antiberlusconismo come strumento della politica. Quando per la legge elettorale, suo primario compito, trasformò la pallida “vocazione” veltroniana in vibrante missione maggioritaria. Quando palesò l’ambizioso elenco delle riforme costituzionali – titolo V, Senato – e ordinarie – Pubblica Amministrazione, scuola, lavoro. Per un momento credemmo di essere tornati all’imponente programma riformatore del Prodi I (si licet parva) e della Bicamerale (absit injuria).
La “furia” montò a poco a poco. Fu dapprima reazione alla smania di Renzi di presentarsi come “Mr.Wolf, risolvo problemi” – la banda larga, Taranto, Siena – giocando la CDP come i carri armati di Mussolini. Una smania irta di pericoli: ma un po’ per fortuna, un po’ per impotenza, un po’ per il protrarsi dei tempi, contenne i danni e passò palla. La nostra “furia” crebbe via via che diventarono palesi le conseguenze della sua dissennata gestione del referendum, dalla decisione stessa di convocarlo, alla personalizzazione, fino a diventare, negli ultimi mesi del governo, il tema totalmente assorbente, ogni atto (legge di bilancio compresa) essendo subordinato all’obiettivo del voto. Ogni atto e ogni detto, come certe stizzite “sparate” europee.
Se così fosse, personalità a parte, lo schema non si distinguerebbe troppo da quello di ogni storia politica, una fase di entusiasmo seguita dal risentimento per la speranza delusa. A far la differenza, qui, è il referendum abrogativo sul Jobs Act. La feroce voglia dell’opposizione interna di eliminare il risultato più significativo e più visibile, in Italia e all’estero, del Governo Renzi, cambia tutto: vuole levarci ciò che più giustificava il nostro “innamoramento”, ma soprattutto fa salire a mille la nostra “furia”. “Furia” verso Renzi per non essere riuscito a consolidare il cambiamento. Vent’anni fa la Germania fa era “the sick man of Europe”; prese a crescere con le riforme del lavoro di Schroeder. Da noi invece, blocco feroce: l’assassinio di Marco Biagi, D’Alema e il “dottor Cofferati”, l’art 18 di Maroni e i “tremilioni” portati al Circo Massimo. “Non basta dire no”, si scrisse. Oggi il nostro divario di produttività ha raggiunto il 34%. “Furia” verso chi vuole levarci la miglior cosa fatta in questi anni. Perché questo significa già il solo fatto di aver posto il quesito di costituzionalità, indipendentemente dal verdetto di ammissibilità della Corte: sradicare, insieme alla legge, Renzi e il renzismo. Cioè la continuazione di quello che già si era fatto col referendum costituzionale. La nostra “furia” è quella che induceva Norberto Bobbio a rivolgere (nel 1993!) a Giorgio Napolitano l’angoscioso interrogativo: è possibile vincere la “impotenza a riformare” della sinistra?
Il Jobs Act è il bersaglio grosso, ma la voglia restauratrice si abbatte, magari sfruttando una sola parola, sulla riforma Madia, sulle legge per le banche popolari, sui voucher, sulla scuola. Il tentativo di restaurazione messo in atto dal sindacato è il modello di quanto si è riproposto o si riproporrebbe da scuola, insegnanti, magistratura, Consiglio di Stato, Consulta. Sicché l’interrogativo di Bobbio più specificamente diventa: è possibile riformare la norma senza aver prima riformato associazioni e corpi dello Stato, che Claudio Cerasa collettivamente chiama “i corpi intermedi”?
Io lo credo possibile. A patto che ci sia un partito i cui membri pongano questo obiettivo al di sopra delle proprie individuali provenienze e appartenenze. Un partito che lo senta come propria identità e missione e che quindi sia credibile verso le controparti in un aperto confronto democratico. Questo sarebbe chiaramente impossibile con un parlamento eletto con voto proporzionale, in cui tutte le composizioni sono possibili, tutte le tentazioni sono lecite perché tutte le sfumature sono realizzabili. Un maggioritario netto non è condizione sufficiente per superare la “impotenza” di cui parlava Bobbio: certamente ne è condizione necessaria.
ARTICOLI CORRELATI
L’imbuto dello Stato inefficiente
di Sabino Cassese – Il Corriere della Sera, 3 gennaio 2017
Una coalizione riformista contro i populismi
di Michele Salvati – Il Corriere della Sera, 3 gennaio 2017
Così il Mattarellum incoraggia il bipolarismo
di Gianfranco Pasquino – Il Corriere della Sera, 3 gennaio 2017
Volete il reddito d’inclusione? Allora rinunciate all’art. 18 e agli altri lacci
di Carlo Stagnaro – Il Foglio, 6 gennaio 2017
gennaio 6, 2017