Ce la farà Renzi? Se lo chiedono i renziani, che temono possa perdere la sua diversità; se lo chiedono gli antirenziani nicodemici, che diffidano della sua omogeneità (con Berlusconi ovviamente). Al governo di solito si arriva con un programma da realizzare. Renzi ci arriva come prosecuzione di un percorso che ha unito tre punti: cambio generazionale nel partito; fine del pregiudizio antiberlusconiano; accordo sulla legge elettorale. Ha dovuto allungare il percorso, riforma del Senato e del titolo V, e chiedere più tempo. Il suo futuro continua a dipendere da quelle riforme.
Riformare e governare: un doppio compito in cui i precedenti tentativi o sono naufragati o sono usciti malconci. Ce la farà Renzi? Col moltiplicarsi dei fronti, “governare” tende a prendersi tutto il tempo e l’attenzione di Renzi e dell’esigua squadra di governo. “Governare” è necessario per “riformare”, ma è sul “riformare” che si gioca, lui il suo futuro politico, il Paese qualcosa che non è esagerato definire sopravvivenza. “Farcela” è riuscire ad attraversare indenne le difficoltà quotidiane per portare a casa quello che finora non è riuscito a nessuno: le riforme costituzionali. Uno come Renzi, dotato di prontezza e inventiva, di capacità di comunicazione e di un linguaggio disincantato, sgravato dal peso di ideologie, può trasformare gli imprevisti in occasione per uno spettacolo un po’ funambolico che tenga desta l’attenzione fino ad approvare le “sue” riforme. Un governo come il suo, in cui le persone appaiono fungibili e perfino intercambiabili, in cui più che i valori tradizionali – destra e sinistra – valgono quelli di mobile contro immobile, nuovo contro risaputo, diretto contro involuto, può darsi che ottenga più risultati di un governo formato assemblando eccellenze e competenze. D’altra parte, in un Paese con questi vincoli di bilancio e questi oneri da debito, in un Paese che da decenni ha smarrito la crescita, le azioni di governo spostano un po’ di risorse da un impiego a un altro, da una categoria a un’altra, ma sono sostanzialmente un gioco a somma zero. Con l’attuale situazione, governare si riduce a reagire agli imprevisti nuovi e a dare qualche risposta alle criticità antiche; e così mantenere vivo il consenso e alta la fiducia per accompagnare la nave fino al porto delle riforme. Non essere impegnato alla realizzazione di un programma può perfino essere un vantaggio.
Anche chi, come il sottoscritto, considera un’occasione persa non avere abolito l’art. 18 riconosce che uno scossone è stato dato; anche chi non crede che un deficit al 3% serva a risolvere i problemi considera positivo che a Bruxelles si siano sentiti toni diversi; anche a chi non crede che il taglio dell’Irpef avrà gli effetti sperati riconosce il rilievo politico del segnale. Ma la asistematicità consente maggiore libertà, l’improvvisazione maggiore velocità: bisogna approfittarne. Non saranno i cedimenti sul piano del “governare” a garantire il consenso sul piano del “riformare”: è più facile che sia il contrario. Tanto per fare esempi: perché non separare nelle Poste l’attività bancaria da quella delle spedizioni, privatizzare l’una e vendere l’altra? Perché non ripescare i coreani e vendergli Ansaldo Energia? Perché non fare come ha suggerito Roberto Perotti sul Sole 24 Ore, approfittare delle 350 nomine e invece di fare norme per decidere, decidere di non aver più bisogno delle norme, sfrondare la foresta delle 8.000 imprese pubbliche, tra statali, regionali e municipali? C’è solo un ponte tra i due piani, quello del “governare” e quello “riformare”: la reingegnerizzazione della pubblica amministrazione. Perché solo dalla spending review possono venire i soldi veri. Perché riconvertire la P.A. al suo core business, ridurne l’impronta e cambiarne il “prodotto” è imprescindibile sia per i tempi brevi del “governare” sia per quelli lunghi del “riformare”.
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aprile 10, 2014