«Perché Berlusconi non vende le sue televisioni?» si scriveva su queste colonne nel numero di maggio, analizzando le ragioni per cui al Berlusconi imprenditore sarebbe convenuto, sul piano economico, mettere in vendita le sue antenne. E si concludeva che Berlusconi non vende, non perché ciò sia in contrasto con i suoi interessi economici, ma nonostante che ciò probabilmente lo sarà.
Da allora a molti ho ripetuto la stessa domanda: alcuni hanno obiettato che non ci sarebbe compratore; ma è di qualche giorno fa la notizia che in Inghilterra è stata indetta la gara per la concessione di un’altra rete generalista via etere. E questa obiezione viene a cadere.
Altri hanno suggerito una spiegazione di tipo psicologico: Berlusconi non se la sentirebbe di “tradire” le persone con cui ha costruito il suo impero finanziario. Ma ciò equivale ad ammettere esplicitamente l’incapacità psicologica del Presidente del Consiglio di decidere in materie in cui emerga conflitto di interessi.
E’ ora possibile fare un consuntivo del prezzo politico che Berlusconi ha già pagato per non aver voluto risolvere il problema del conflitto di interessi. I momenti più critici per il suo Governo sono stati quelli di scontro con la magistratura: il decreto “salva-amici” e la seguente cena di Areore, che l’ha obbligato alla seduta notturna a Montecitorio: e la vicenda innescata dall’intervista di Borrelli. Anche se un’eventuale vendita non avrebbe il potere di amnistiare eventuali illeciti a carico di Fininvest e dei suoi amministratori dell’epoca, é chiaro che la separazione di Berlusconi dalle sue proprietà aziendali avrebbe di molto ridotto la dimensione del bersaglio e la sensitività politica del problema.
Stessa cosa lo scontro sulle decisioni del Consiglio Rai: che rimangono quello che sono sul piano culturale e gestionale, ma che risultano particolarmente intollerabili per la “bulgarizzazione” di tutto il sistema dell’informazione televisiva che ne consegue.
Il conflitto di interessi é costato a Berlusconi anche la prima sconfitta in Parlamento, quando é stato bocciato il decreto che prorogava i diritti di autore: fatto in sé minimo ma che diventa significativo sul piano simbolico.
Ma il prezzo più salato Berlusconi lo sta pagando sul piano politico: é il conflitto di interessi che offre a Bossi le munizioni più efficaci per le sue incursioni. La libertà di manovra del capo di questa maggioranza ne esce enormemente ristretta e condizionata. Tra i suoi due alleati maggiori, Berlusconi é obbligato ad appiattirsi sempre di più su quello più strutturato, politicamente ed organizzativamente; quindi é costretto ad accentuare sempre di più la sua polemica con le opposizioni, a governare con i toni e i temi della campagna elettorale, precludendosi quindi la possibilità di mantenere le promesse. E si pensa non tanto a quelle del tipo del milione di posti di lavoro, la cui natura menzognera appariva chiara a qualunque osservatore appena critico, quanto alle promesse di introdurre riforme di tipo liberista, a cui molti elettori avevano prestato fiducia. Basta guardare che cosa sta avvenendo della più emblematica delle liberalizzazioni, quella che avrebbe dovuto essere innescata dal processo di privatizzazione: gli uomini di An occupano posizioni chiave, ed i vertici delle aziende privatizzando trovano in An i più sicuri alleati perché tutto (ivi compreso il loro potere) rimanga com’è. E un discorso analogo si potrebbe fare per l’altra promessa del Berlusconi candidato, quella del “buon governo”, della riforma della Pubblica Amministrazione: che non si potrà neppure iniziare senza toccare gli interessi di un ceto sociale che é tra le più preziose “riserve di caccia” di Fini. Non é neppure necessario continuare: lo stesso Ferrara, non un ministro qualsiasi, ma l’incaricato del più delicato tra tutti i rapporti, quello col Parlamento, trova necessario intervenire sull’argomento in una lettera aperta al suo Presidente del Consiglio. Fatto clamoroso, che probabilmente non ha precedenti nella storia non solo della nostra Repubblica.
Allora è impossibile non porsi la domanda: ne vale la pena? Domanda alla quale non ci sono che due risposte: o Berlusconi non é stato in grado di valutare i prezzi politici che avrebbe dovuto pagare, ed allora dovranno definitivamente ricredersi quanti ancora pensano che, lavorando e imparando, riesca a far venir fuori la stoffa dell’uomo di Stato. Oppure il controllo di tutto il sistema dell’informazione televisiva é il vero cardine della politica berlusconiana. In questo caso si potrebbe davvero invocare la spiegazione psicologica: ma non già per rimandare ad un Berlusconi sentimentalmente legato al suo passato, bensì ad un Berlusconi cui proprio l’esperienza imprenditoriale e il successo (ed il modo di raggiungerlo) hanno radicato la convinzione dell’inarrestabile potere dei media.
Tanto inarrestabile da non avere neppure bisogno di mostrare i muscoli. L’osservazione di Adornato, (ripresa da Previti) secondo cui il successo di Berlusconi non é dovuto all’uso delle reti televisive, spiega (forse) quanto é avvenuto in campagna elettorale. Ma il fatto che questa maggioranza si regga sulla minaccia che le televisioni potrebbero essere utilizzate tutte (ora che anche la Rai é stata normalizzata) in una futura campagna elettorale, é ciò che ormai condiziona tutta la vita politica. Con ciò non si intende concordare con chi pensa che questo sia già un regime: ma non sapere irrevocabilmente rinunciare alla possibilità che lo diventi, è la più chiara.
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novembre 1, 1994