Un atto di chiarezza e una leggenda sfatata

novembre 7, 2000


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Non capita sovente che un atto di Governo abbia l’effetto di limitare l’ingerenza del pubblico, di mettere a posto il vocabolario, e di sfatare una leggenda: e’ invece quello che fa, in un sol colpo, il DPCM sulla vendita di Elettrogen, il primo dei tre lotti di centrali, per un totale di 15.000 MW, che Enel deve vendere in base al decreto Bersani. Chi ancora crede che per la buona politica sia necessario innanzitutto fare chiarezza, sulle parole e sulle leggende, trova in questo DPCM un motivo per rallegrarsi.

Nei consorzi che concorrono per l’acquisto di Elettrogen, dice il nuovo decreto, le aziende pubbliche non potranno avere quote superiori al 30%. E aggiunge: un’azienda è pubblica quando il pubblico esercita un’influenza dominante, quella dell’art. 2359 del codice civile, che la giurisprudenza identifica nella capacità di nominare gli amministratori. Era ora! Finalmente in un atto con valore di legge, viene affermata in modo chiaro la distinzione tra proprietà pubblica e privata. Da oggi la parola “privatizzare” ritorna al suo significato originario, e sarà riservata – per decreto! – solo ai casi in cui il pubblico questa influenza dominante la perde. Le statistiche saranno meno consolatorie, ma i programmi politici più precisi, gli impegni più cogenti. Sarà più facile intendersi: lo sarebbe stato anche per gli investitori a cui si fece intendere che partecipavano alla “privatizzazione dell’Enel”, mentre acquistavano solo quote di un’azienda pubblica, della cui privatizzazione, come ora sappiamo, non è mai esistito alcun piano. Adesso sanno che era pubblicità ingannevole: tardiva soddisfazione, anche per il sottoscritto che lo aveva denunciato all’Antitrust.
La leggenda sfatata è quella secondo cui i comuni non potrebbero scendere sotto il 51% di proprietà nelle loro aziende municipalizzate. Tale divieto non c’è; c’erano benefici fiscali collegati al mantenimento di tale quota, ma il termine è scaduto – almeno per i comuni che sono stati solerti nel trasformare le loro aziende in S.p.A. E’ vero invece che se il comune perde la maggioranza deve mettere a gara i servizi che le aziende municipalizzate forniscono ora “di diritto”. Ma se un’azienda teme di perdere una fornitura quando viene posta in concorrenza, vuol dire che sa di essere più cara. E’ chiaro che un’azienda vale di più se gode di una posizione di monopolio, ma i cittadini utenti sanno che questo maggior valore per gli azionisti lo pagano loro con servizi più cari.

Il limite del 30% per la presenza pubblica nelle cordate sembra un buon compromesso tra i due obbiettivi, di escludere una ripubblicizzazione, e di evitare di restringere il campo dei concorrenti. Curiosa però la ragione che viene addotta per giustificarlo, perché compare nella legge Draghi: riconoscimento meritato, ma qui del tutto a sproposito. Cosa c’entra la soglia per l’Opa obbligatoria per un’azienda non quotata?

Il bando di gara pubblicato dall’Enel non prevedeva nessuna limitazione per acquirenti pubblici. Nessuna obbiezione, ha confermato in Senato l’Amm. Del. dell’Enel, era stata fatta né in occasione dell’approvazione da parte del CdA Enel, in cui siedono i rappresentanti del Tesoro, né durante la presentazione al Comitato per le privatizzazioni. Era stato il Ministro Letta il primo a chiedere che si evitasse l’assurdo che le centrali passassero dall’Enel ad un acquirente esso pure pubblico, italiano o straniero che fosse. Queste preoccupazioni per una volta hanno avuto ascolto, ed è giusto darne atto.

Il Governo si è riappropriato di una parte di potere strategico nel processo di dismissione, altrimenti tutto lasciato nelle mani dell’Enel. Le strategie di una utility elettrica sono infatti quasi completamente determinate dal tipo di centrale: lasciando ad Enel di stabilire la formazione dei lotti le si è concesso il privilegio di condizionare le strategie dei propri concorrenti. Enel cerca di estendere questo privilegio concentrando gli investimenti sulle centrali che intende dismettere: il 70% di più – rapportato alla potenza installata- che sulle centrali che le resteranno.

Peccato che il Governo tragga da questi principi giusti almeno una conclusione sbagliata. Giusto confermare che questa non è solo una dismissione, ma una privatizzazione in piena regola. Ma non si capisce allora perché il Ministro Visco escluda che i relativi proventi vengano prelevati con la distribuzione di un dividendo straordinario: così la parte di tali proventi spettante al Tesoro resterà in Enel, invece di andare ad ammortamento del debito pubblico, e sarà intieramente restituita solo quando il Tesoro avrà venduto l’ultima azione Enel. E’ come se il capitale di Enel – adeguato, tant’è che le consente diversificazioni nel settore telefonico – venisse aumentato a carico, pro quota, del fondo ammortamento debito pubblico e dei soci privati. Se il Tesoro venderà un’altra quota di azioni Enel, solo per la percentuale venduta i proventi della privatizzazione delle GenCo verranno appostati a riduzione del debito. Se non la legge 474, almeno la preferenza degli azionisti a non lasciare nelle aziende capitale eccedente il necessario, dovrebbe consigliare di procedere, proprio in vista di un ulteriore classamento, alla distribuzione di un dividendo straordinario.

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