«Una scelta personale, meditata e maturata prima delle elezioni», ha detto Mario Draghi delle sue dimissioni: e non è una bugia diplomatica. Perché queste dimissioni chiudono un ciclo che, per il tempo che è durato e per i tempi in cui si è svolto, si può ben dire eccezionale: polemiche e prese di distanza ne sminuirebbero il valore e impedirebbero di cogliere il senso politico di un ciclo durante il quale è cambiato il panorama del nostro capitalismo e il Paese.
Per questa ragione, ciò che finisce per avere rilievo politico non sono tanto le dimissioni di Mario Draghi in sé bensì il giudizio che del decennio Draghi daranno le forze politiche. Più che per la qualità della «macchina» di via XX Settembre che sotto Draghi ha continuato ad essere uno dei pochi centri di cultura amministrativa, forse l’unico insieme a Bankitalia; più che per la gestione del debito pubblico, per cui i tecnici del Tesoro sono diventati punti di riferimento nella finanza pubblica mondiale; il giudizio su Mario Draghi inevitabilmente finisce per essere un giudizio sulle privatizzazioni. Per l’entità delle attività restituite al mercato, e per le modernizzazioni introdotte dalla legge che porta il suo nome, nel decennio Draghi è cambiato il panorama dell’economia italiana: lo riconosce anche chi, come me, in passato, mentre il processo era in corso, ha criticato pensando che si potesse fare di più e prima. Rari sono stati gli interventi di Draghi nel dibattito teorico e politico sulle privatizzazioni: ricordo quello, due anni fa, sul nocciolo duro come modello di transizione al mercato; un altro quest’anno, per ricordare a critici frettolosi che tra mobilità del controllo e protezione degli interessi delle minoranze azionarie è sempre necessario fare un compromesso. Il professor Draghi sapeva di essere obbligato al pragmatismo, a tenere per sé molti dei più rigorosi convincimenti che le mutevoli esigenze della politica non gli hanno consentito di realizzare. Invece, la resistenza ai cambiamenti, la debolezza delle coalizioni, indussero le forze politiche a compromessi, a volte ad ambiguità. Mantenere coerenza con un progetto strategico; gestire un potere senza precedenti senza interpretazioni «sediziose» o personali; sapere restare sempre impermeabile alle influenze politiche ad alto livello, a costo di apparire secondo la celebre definizione di Massimo Gaggi, una «salamandra in grisaglia»: è questo il prezzo che Mario Draghi ha pagato per servire il Paese sotto dieci governi diversi. Bisogna dare atto che la decisione del governo di porre alla guida del dipartimento del Tesoro il professor Domenico Siniscalco, che è stato collaboratore del Tesoro sotto i governi di centrosinistra, è una buona scelta. A lui tocca ora un duplice compito molto impegnativo. Da una parte, coniugare visioni teoriche altrettanto solide e tenaci con un’elevata capacità di resistenza ad eventuali ritorni di fiamma di improprie invadenze politiche. Dall’altra, la capacità di stimolare chi porta le responsabilità politiche del Paese verso il compimento di un processo, di privatizzazione e di liberalizzazione, al cui compimento non potevano bastare le evidenti virtù di Draghi. Segni preoccupanti, sia di un ritorno a politiche discrezionali, sia delle nostalgie dello statalismo, non mancano purtroppo all’interno di una compagine che ha vinto in nome di una fede verso il mercato della quale ancora non si vedono le opere.
settembre 8, 2001