Se solo avessero lasciato la parola 15 invece di sostituirla con il 5 ripescato in un’altra parte della norma, il referendum sarebbe stato probabilmente dichiarato ammissibile, quasi con certezza si sarebbe superato il quorum ed è possibile che i Sì sarebbero stati in maggioranza. Come è noto, il vecchio art 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 imponeva che il lavoratore di un’azienda con più di 15 dipendenti venisse reintegrato nel suo posto di lavoro, ove il giudice non ne ravvisasse il giustificato motivo. Il referendum promosso dalla Cgil voleva non solo ripristinare l’art 18, eliminato dal Jobs act per i nuovi assunti, nella sua formulazione più arcigna, ma estenderlo a tutte le aziende con più di 5 dipendenti. La Corte ha ritenuto che si sarebbe trattato di un referendum propositivo; e non l’ha ammesso. Ma le indiscrezioni parlavano di una Corte divisa e giustificavano il nostro diffuso pessimismo. I proponenti il referendum non potevano ignorare questo rischio. Perché hanno voluto correrlo? Qual era l’obiettivo tanto importante da giustificare l’azzardo?
La Cgil ha redatto una “Carta dei diritti universali del lavoro”, che con oltre 30mila parole in 97 articoli, tecnicamente perfetti, chiari, concisi e facilmente leggibili, ridefinisce l’intero diritto del lavoro e sindacale. Quando, sette anni fa, Pietro Ichino aveva proposto il suo codice semplificato, che razionalizzava le norme nel tempo accumulatesi, la Cgil aveva tuonato che «semplificazione significa smantellamento dei diritti». Poi ha cambiato idea: con un lavoro opposto nei contenuti ma analogo nell’intento semplificativo, ha proposto anch’essa il proprio codice semplificato, che avrebbe dovuto essere il punto di arrivo di un complesso disegno politico. Gettarne le basi con il voto popolare sui tre pilastri sottoposti a referendum – l’estensione del diritto al reintegro a tutte le imprese con più di 5 lavoratori, l’abolizione dei voucher e il ritorno alla disciplina originaria sugli appalti – e farne la piattaforma di lancio per l’approvazione di una legge di iniziativa popolare che recepisse la Carta dei diritti universali versione Cgil. Una rigida disciplina del part-time, del mutamento di mansioni, del contratto a termine, estesa a tutte le imprese indipendentemente dalle dimensioni, addirittura alle collaborazioni continuative: una vera e propria scorpacciata di protezioni aggiuntive per i lavoratori che hanno la fortuna di trovarsi dentro la cittadella fortificata del lavoro protetto. La “variabile indipendente” del sistema, che un tempo la Cgil sosteneva essere la retribuzione, oggi in questa ottica è la rigidità delle protezioni.
Il referendum per l’art.18 non si farà, quello per i voucher potrebbe essere forse disattivato da un intervento legislativo, e in ogni caso potrebbe non raggiungere il quorum. Ma restano, e non sono da poco, i guasti che l’iniziativa ha prodotto per la formazione di una corretta opinione pubblica in tema di diritti del lavoro. La campagna di delegittimazione e di denigrazione dello strumento del voucher è stata velenosa. Ci saranno stati, come sempre è possibile, degli abusi, e questi vanno impediti e sanzionati: ma è la stessa dimensione del fenomeno a dimostrare la fisiologica funzionalità dello strumento. Se fossero spesi per rapporti a tempo pieno, 120 milioni di voucher, corrisponderebbero a circa 60mila posti di lavoro; moltiplichiamoli pure per 20, per tener conto del fatto che si tratta quasi sempre di lavoretti occasionali: arriviamo a 1,2 milioni; è comunque una frazione ragionevole, in relazione a una forza-lavoro di 23 milioni. È nettamente inferiore rispetto alla percentuale che si registra in Germania per i cosiddetti minijob.
Un milione sono le firme raccolte dalla Cgil a sostegno di ciascuno dei tre quesiti referendari. Ma ben più della capacità di mobilitazione esterna, impressiona il funzionamento della dialettica interna: nessuna voce si è alzata nel sindacato per mettere in discussione il progetto politico. Non era così ai tempi di Luciano Lama, e del controverso referendum sulla scala mobile, e neppure ai tempi di Sergio Cofferati, il quale nel 2003 diede l’indicazione di astenersi dal voto per far fallire il referendum promosso da Rifondazione Comunista, mirato all’estensione dell’articolo 18 alle imprese sotto i 16 dipendenti.
Così noi ci troviamo da un lato il maggior sindacato nazionale che approva compatto un progetto che ingesserebbe le strutture produttive, rendendoci simili all’Albania di Enver Hoxha, e, quanto ai rapporti di lavoro, ci metterebbe in controtendenza rispetto all’Europa. Dall’altro con il partito in testa nei sondaggi che, entrato e uscito, come nella famosa pochade di Feydeau, dall’“albergo del libero scambio”, riconferma il proposito di un referendum per uscire dall’Europa.
Forse l’abbiamo detto troppo presto che l’abbiamo scampata bella.
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gennaio 22, 2017