E’ stata una mossa giusta nella sostanza e astuta nella scelta di tempo quella con cui Giuliano Amato prendendo tutti di sorpresa ha posto un obbiettivo minimo di 25000 miliardi per i ricavi dalle concessioni UMTS. Insistere nel vendere per 500 Miliardi quello che in Inghilterra è stato venduto per 14.000, in Francia per 10.000 e in Germania per cifre forse ancora maggiori sarebbe stato suicida. Ma la soluzione adottata, l’asta dentro il beauty contest, si sta rivelando un pericoloso trabocchetto.
Tutto dipende dall’interpretazione che si dà al DPR 318/97, che definisce le modalità per il rilascio delle concessioni. Secondo alcuni giuristi, la legge imporrebbe la licitazione, e questa in nessun caso può trasformarsi in asta. Un’opinione certo, ma che viene dottamente argomentata, e che dunque potrebbe essere trovata corretta dal TAR, se un’azienda sconfitta vi facesse ricorso sostenendo l’illegittimità di un’asta dentro il beauty contest. E questo rischio il governo non lo può correre. Il rischio svanirebbe, se i concorrenti si coalizzassero formando un numero di cordate pari al numero delle licenze in palio: ma il regolamento dell’Autorità, per evitare che la gara diventi una farsa, prevede che in tal caso si riduca il numero delle concessioni da 5 a 4 o a 3, magari con minibande come premio di consolazione.
La previsione di una nuova gara a breve falserebbe il risultato: per un nuovo entrante potrebbe essere più conveniente lasciare che il primo lotto vada agli attuali gestori GSM che a nessun costo possono vedersi esclusi dal nuovo servizio. Insomma, una decisione giusta del Governo Amato rischia di naufragare in un pasticcio amministrativo.
La tesi che il DPR 318 non consenta l’asta più o meno mascherata risulta implicitamente rafforzata dalla stessa l’Autorità delle Comunicazioni, se è stato il vincolo di legge a farla decidere per il beauty contest. Essersi lasciati guidare da simile formalismo giuridico è stato errore imperdonabile.
Per coerenza con l’indipendenza dal potere politico che la legge le impone, l’Autorità avrebbe dovuto preferire una soluzione – l’asta – che riduce la discrezionalità dell’esecutivo. La 318 recepisce direttive comunitarie del 95 e del 96; è stata emanata nel settembre 97, appena due mesi dopo la legge istitutiva dell’Autorità, quando Telecom si chiamava ancora Stet ed era pubblica. La gara inglese é stata decisa a febbraio, e iniziata a marzo, dunque a dicembre erano già disponibili tutti gli elementi di fatto. La lungimiranza dell’Autorità preposta ad uno dei settori più dinamici dell’economia è stata tale che il valore stimato per una concessione appare, sei mesi dopo, scandaloso. Se pensava che fosse la legge a non consentire un metodo di selezione più adeguato, l’Autorità doveva chiedere al governo di modificarla.
Si è detto del Governo Amato, si è detto dell’Autorità, poco si è detto dell’opposizione e del suo singolare comportamento. Gli economisti liberali sanno che l’asta non serve per incassare più soldi ma per scegliere le aziende più efficienti: invece l’opposizione si è svegliata solo per discutere su che cosa fare dei proventi delle concessioni, non ha dato battaglia sulla modalità discrezionale e dirigista con cui l’iniziale progetto Cardinale selezionava i futuri protagonisti di un settore di tale importanza. Invece di andare alla radice del problema ha appoggiato ingenue argomentazioni di stampo populista. Ingenua è l’idea che i prezzi più elevati per le licenze risultino in prezzi più elevati per i consumatori: confonde ragionamenti ex ante (prima che una decisione sia presa) con quelli ex post (dopo che è già stata presa una decisione sulla quale non si può tornare indietro).
Le previsioni sui prezzi futuri influenzano ex ante la scelta se prendere o meno la licenza, ma ex post il costo già sostenuto per la licenza (o la sua quota di ammortamento) è un sunk cost che non influenza i prezzi futuri effettivi. Addirittura, da alcune indicazioni personalmente raccolte dal sottoscritto, l’opposizione sembra voler far propria l’idea di far pagare la concessione con royalty. E allora, già che siamo in argomento, sia consentita una breve digressione in proposito.
La royalty può essere o variabile, una percentuale sul fatturato, o fissa, un tanto all’anno. Entrambe conducono a risultati negativi. Le royalty sul fatturato addossano il rischio di impresa allo Stato, senza che questo abbia voce alcuna sulle decisioni d’impresa del concessionario; corrispondono ad una tassa percentuale sul prezzo finale, che si scarica direttamente sui consumatori, così come accade per le accise sui carburanti; hanno quindi esse sì l’effetto perverso sui prezzi che erroneamente viene attribuito al metodo dell’asta.
La royalty con quote fisse all’anno equivale ad una dilazione di pagamento e viene proposta per favorire i newcomer. Idea già di per sé discutibile: se servizi migliori sono offerti da francesi o tedeschi (servizi sul nostro territorio, offerti ad utenti italiani e con investimenti fatti in Italia, utilizzando mano d’opera in prevalenza italiana) ben vengano; se invece un nuovo imprenditore italiano è in possesso di informazioni migliori sul nostro mercato, vincerà la sua licenza e non avrà difficoltà a convincere eventuali finanziatori; una licenza UMTS non è un diritto.
Il pagamento dilazionato fa venir meno la relazione diretta tra cifra dichiarata e l’esborso effettivo, e comporta il rischio che l’asta non selezioni gli operatori efficienti ma semplicemente quelli maggiormente propensi al rischio, come dimostra l’esperienza americana. Negli USA si sono condotte più di 20 aste diverse per vari blocchi dello spettro, incassando decine di miliardi di dollari. Le aste hanno funzionato benissimo, con una eccezione: il blocco C nell’asta PCS, destinato alle piccole imprese. La FCC ha introdotto trattamenti asimmetrici proprio sui pagamenti, concedendo dilazioni notevoli (il 5% dell’offerta al termine dell’asta, un secondo 5% al conseguimento della licenza e il rimanente dilazionato, chiedendo nei primi 6 anni solo gli interessi). Questa regola ha ingenerato comportamenti di azzardo morale, favorendo bidding speculativo.
Gli speculatori avevano un incentivo ad offrire di più per prendersi le licenze: se il prezzo dello spettro fosse poi cresciuto nel futuro si sarebbero effettuati guadagni, se il prezzo fosse sceso si sarebbe persa una piccola cifra. Nella pratica il prezzo è sceso dopo l’asta e molti operatori hanno dichiarato bancarotta. La FCC si era di fatto sostituita impropriamente al mercato dei capitali. Oggi la regola è stata rimossa, tutte le offerte vanno pagate al conseguimento della licenza, e di bancarotte non ce ne sono state più. E nello stesso senso ha deciso pochi giorni fa anche il Canada, respingendo la tesi del pagamento rateale.
Portare il prezzo delle concessioni a un livello di decenza, capire che quello commesso dall’Autorità in dicembre era un errore, è stato un indubbio merito del Governo. Ma se l’innesto sul beauty contest di un meccanismo d’asta mascherato è con certezza a prova di TAR, allora si proceda con un’asta vera, con un numero di contendenti ragionevolmente più ampio di quello delle licenze disponibili. Se invece non sono manifestamente infondati i dubbi che la 318 non consenta l’asta con rilanci, allora è nell’interesse del paese evitare i ritardi di un contenzioso e in quello del governo evitare i rischi di un pasticcio amministrativo. Conviene allora mettere tutto in chiaro proponendo una modifica della legge. Certo, ci sono le insidie del percorso parlamentare: ma come può un’opposizione non approvare un provvedimento che riduce la discrezionalità del governo? come può un’opposizione di destra votare contro un provvedimento che affida la scelta al mercato ed alla trasparente contesa tra concorrenti? come può chiunque – ancor più alla luce dei postumi della gara inglese – sostenere che i governi hanno maggiori informazioni degli operatori di mercato nel giudicare il valore futuro di un business? Certo adesso è sgradevolmente tardi per riprendere il cammino dell’iniziativa legislativa: ma assai più sgradevoli sarebbero le conseguenze di una sconfitta in un ricorso al TAR.
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luglio 6, 2000