È stato un esempio di uomo-azienda, migliore espressione dell’industria familiare
Umberto aveva due motociclette bellissime, una Bmw e una Sunbeam. Moto di grande cilindrata, ragazze e compagni di studi lo guardavano ammirati. A volte mi dava uno strappo a scuola sul sellino di dietro. Frequentavamo tutti e due il collegio San Giuseppe in via San Francesco da Paola».
Dai suoi ricordi Franco Debenedetti estrae tre fotogrammi che lo legano al presidente della Fiat, ricordi personali e di lavoro. Sono tre foto a trent’anni di distanza l’una dall’altra, dell’adolescenza la prima, del lavoro in Fiat la seconda. L’ultima riferita a una fase in cui, dice il senatore dei Ds, lui e Umberto Agnelli sono stati uniti da interessi comuni, la politica, l’economia globale, il capitalismo italiano. Una conoscenza che viene da lontano, la loro, per metterla a fuoco dovete osservare la prima istantanea, anno 1945, quartiere Crocetta. Racconta Debenedetti: «Ricordo il giorno in cui morì la madre degli Agnelli, Virginia Bourbon del Monte, il senso di tragedia di quel giorno nel cortile del palazzo di corso Matteotti 26. Umberto aveva solo undici anni, e aveva perso il padre quando ne aveva uno. Abitavamo nella stessa casa, praticamente sullo stesso pianerottolo. Gli Agnelli al primo piano, noi affittavamo da loro il secondo. Poi gli Agnelli l’hanno lasciata, oggi quell’abitazione è stata riconvertita a sede dell’Ifil, la finanziaria della famiglia». Cosa significava essere un giovane Agnelli in quella Torino? «Credo che il peso l’abbia portato di più Gianni, sul quale già erano accesi i riflettori. Umberto ha potuto crescere più appartato». C’è anche un terzo inquilino particolare in corso Matteotti, l’ingegner Loria, figlio del senatore socialista Achille, «un socialista antico, di quelli con la barba», ricorda Debenedetti. In quel palazzo si sfiorano per caso una Torino dell’industria e in parte anche una della politica. È come se ci fosse un filo che indica già la storia che adesso Debenedetti ricostruisce.
Guardate la seconda immagine, anno 1976. Il «Dottore» è alla Fiat da sei anni anni. Franco Debenedetti vi è rimasto dopo la rapida uscita di suo fratello Carlo: «Umberto mi affidò la gestione del settore componenti. Quel settore l’aveva praticamente inventato lui, nel corso della riorganizzazione della Fiat in tredici settori in cui aveva avuto un ruolo importante. Il nostro è stato un rapporto intenso, in cui ho conosciuto le sue qualità manageriali fatte di precisione e attenzione, esigente con sé e con gli altri. Era capace di sintesi, e di grande attenzione ai dettagli. Sono stati anni che ricordo con grande piacere, anni di sfide e di soddisfazioni. A quanto mi risulta, anche per la Fiat». Qual era il rapporto di Umberto con la fabbrica, e l’automobile? «Ripensando a quel periodo capisco quanto siano nel giusto quelli che individuano in Umberto il vero uomo Fiat, un uomo identificato con l’azienda e con il prodotto, per quanto paradossale possa sembrare». Paradossale perché poi nell’immaginario collettivo l’uomo Fiat è rimasto Gianni. «Dopo la morte dell’Avvocato è Umberto a capire che senza auto non c’è futuro per il gruppo, Umberto a guidare la famiglia all’aumento di capitale, primo passo indispensabile per il salvataggio finanziario e per il rilancio industriale».
Passano gli anni ma il legame tra i due vicini di pianerottolo non si spezza. La foto più recente si scatta dopo la morte dell’Avvocato. È la fase in cui il «Dottore» prende la guida della famiglia e del gruppo. «Le grandi questioni della politica e dell’economia avevano sempre interessato Umberto, dai tempi delle passioni giovanili, e molto discusse, per i disegni globali della società, all’esperienza anch’essa controversa come senatore, e oggi al ruolo politico che di diritto compete a chi è alla testa del più grande gruppo industriale privato italiano, e quindi del capitalismo privato italiano». Quel ruolo al timone, ragiona Debenedetti, «in qualche modo arrivava tardi»: «È come se Umberto fosse un personaggio shakespeariano, non solo per le tragedie che ne hanno segnato l’esistenza, ma per la sua vita professionale. Sembra che ogni volta sia stato fermato a un passo dal mettere in atto le soluzioni che poi si sarebbero rivelate corrette. Fermato una volta da Cuccia. Fermato in seguito quando suggeriva un’articolazione industriale del gruppo basata su diverse priorità strategiche. Fermato un’ultima volta quando, con la crisi ormai evidente, ha proposto la soluzione Gabetti-Bondi».Dalla fine di Umberto, Debenedetti ricava considerazioni che vanno oltre le sorti dell’azienda di Torino e investono il futuro stesso del capitalismo italiano: «Ora la Fiat ha imboccato un difficile percorso di risanamento industriale, incombono delicate scadenze finanziarie. La successione di Umberto alla guida della famiglia e del gruppo appare, in queste condizioni, un passaggio chiave, un momento storico. Da qui possono partire catene di eventi che determineranno la sorte non solo della nostra maggiore industria ma anche degli assetti del capitalismo privato nel nostro paese». Il senatore Ds su questo ha un’idea che va controcorrente: non è detto che il capitalismo familiare sia poi così male, di certo è proprio la struttura delle grandi famiglie che ha posto un argine all’invadenza della politica sull’economia. «Quello italiano è un capitalismo che ha i suoi difetti e tante volte si sono dovuti denunciare», ammette Debenedetti. «Ma è il nostro capitalismo, è l’unico che abbiamo. E come ha dimostrato Umberto Agnelli quando ha deciso di mettere risorse della famiglia per salvare l’impresa, è anche un capitalismo capace di atti di coerenza e coraggio. Succede a volte che gli ultimi atti di un uomo illuminino e riassumano tutta una vita: credo che questo sia uno di quei casi».
L’Umberto che esce da queste tre foto non è più il ragazzo su una rombante Bmw; non è l’uomo prestato, per una stagione rivelatasi breve, alla politica; e forse non è neanche, soltanto, un grande uomo della finanza. Secondo Debenedetti il presidente della Fiat è stato qualcos’altro, un capitalista nel senso più pieno del termine, «e dunque sulla sua lapide, a chiudere con orgoglio il suo cammino e indicare con fiducia quello che altri dovranno continuare, potrebbe a buon diritto essere scritto: Umberto Agnelli, Capitalista».
intervista di Jacopo Iacoboni
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maggio 30, 2004