Creare un mercato concorrenziale che contrasti il conflitto di interessi nel settore televisivo è il titolo di un disegno di legge che ho presentato la mattina del primo giorno della nuova legislatura. Infatti, con la vittoria della Casa delle libertà, il problema del rapporto tra potere politico e potere mediatico da un’ipotesi da discutere diventa un problema da affrontare. C’è largo consenso, anche nella nuova maggioranza, che la separazione tra questi due poteri sia funzionale al buon funzionamento delle istituzioni, al rapporto di fiducia tra queste e i cittadini, che è radice viva di democrazia. A chiedere di risolvere il problema del conflitto di interessi non è solo l’opposizione, ma anche autorevoli commentatori politici indipendenti; la stessa maggioranza dichiara di voler prendere iniziative in tal senso.
Sul principio tutti sono d’accordo: chi ha già il potere del Governo non deve avere anche il potere di influenzare l’espressione politica delle televisioni di cui è proprietario.
Invece, che l’Esecutivo possa esercitare la stessa influenza sul contenuto politico o sull’ispirazione culturale delle televisioni di stato, o è considerato normale, o è accettato conte naturale: comunque non viene negato. Al contrario, proprio dal fatto che il controllo politico sulla televisione pubblica viene giudicato il un fact of life, il Centro-sinistra trae argomenti per esigere che si ponga rimedio a una situazione in cui il futuro Governo eserciterà la sua influenza sulla quasi totalità delle reti televisive nazionali.
D’altra parte è la stessa legge a fornire alla maggioranza e, quindi, all’Esecutivo che essa sostiene, gli strumenti per esercitare un’influenza politica sulla Rai: il consiglio di amministrazione è nominato dai presidenti di Camera e Senato, a loro volta di nomina politica; il direttore generale, la cui nomina spettava all’Iri, è ora nominato dall’Esecutivo in modo diretto, senza neppure più la mediazione dell’Istituto di Via Veneto. Anche nella commissione di Vigilanza Rai la maggioranza ha la superiorità numerica. La Rai non è né la Patria né la Costituzione, è un’azienda che produce spettacoli e vende pubblicità: chiedere al Presidente della Repubblica di designarne i vertici — come propongono Francesco Cossiga, Eugenio Scalfati e, ieri, anche Giovanna Melandri è quasi irriguardoso.
Se il Centro-sinistra non è riuscito a risolvere il problema nei cinque anni in cui ha avuto il Governo, è perché una soluzione radicale presenta costi politicamente insostenibili. Io credo che lo strumento della legge riesca solo a contenere e contrastare il conflitto di interessi; credo che per raggiungere questo obiettivo esso debba essere impiegato per vendere il 100% di almeno due reti commerciali Rai, lasciando di proprietà dello Stato al massimo una rete, finanziata dal solo canone e senza pubblicità. Usare lo strumento di legge per intervenire sulla struttura proprietaria della Rai anziché su quella di Mediaset è preferibile per una serie di ragioni.
- È egualmente efficace: se è il controllo di sei reti a costituire il vulnus alla democrazia e se, come sostiene l’opposizione, lo si evita agendo sul lato Mediaset, egualmente lo si evita agendo sul lato Rai.
- È più risolutivo: infatti l’influenza dell’Esecutivo sulla gestione della Rai discende da dispositivi di legge e, quindi. esercitarla è non solo un diritto, ma un dovere della maggioranza.
- È più corretto giuridicamente: nulla osta a che lo Stato venda una sua proprietà, mentre ci sano forti dubbi di incostituzionalità nell’eventuale obbligo a vendere posto in capo a un soggetto privato, che molti giuristi sostengono equivalga all’esproprio.
- È più corretto come politica economica: la privatizzazione delle aziende di Stato è infatti uno degli indirizzi seguiti con successo e coerenza da tutti i Governi dal 1992 in avanti.
- Non è ambiguo. Anche se Fininvest vendesse Mediaset e le sue reti, sarebbe pressoché impossibile fugare il sospetto che Berlusconi possa continuare a esercitare la propria influenza, a meno di mettere clausole assurdamente restrittive. Venduta che fosse, invece, la Rai, a vigilare su fusioni e concentrazioni, dunque sul controllo, formale o di fatto, di società e di imprese, sarebbe l’Antitrust, applicando principi noti e collaudati.
- La parziale cessione a privati di Rai I e Rai2 era già prevista dal Ddl 1138 presentato dalla maggioranza nella passata legislatura. Il referendum che lo chiedeva venne vinto a larghissima maggioranza.
- È nell’interesse delle reti vendute, perché le prepara alla situazione che si verificherà tra appena cinque anni Nel 2006 la legge prevede che sia completato il passaggio al digitale terrestre: con 70 canali in luogo degli attuali 17, il problema della proprietà pubblica perderà gran parte del suo significato.
- È garanzia di pluralismo dell’informazione. Infatti la televisione commerciale “vende audience”: il corrispettivo delle entrate pubblicitarie è il tempo degli spettatori. Per la natura stessa di prodotti di largo consumo — quelli che si possono permettere i grossi budget pubblicitari — non c’è correlazione tra le preferenze verso i prodotti pubblicizzati e opinioni politiche. Chi pubblicizza i suoi prodotti vuole che siano accolti favorevolmente da tutti, di destra o di sinistra. Chi acquista spazi pubblicitari vorrebbe media o politicamente neutri, o che coprano l’intero spettro delle opinioni politiche. Quando un sistema vivacemente concorrenziale avesse sostituito l’attuale duopolio pubblico-privato, il conflitto di interessi potrebbe dirsi risolto e la garanzia del principio costituzionale della pluralità dell’informazione sarebbe affidata agli automatismi delle forze di mercato.
Io non credo sia realistico cercare di “risolvere”, nel senso pieno della parola il conflitto di interessi di cui parliamo: penso che esso debba essere contenuto e contrastato. Gli interessi esistono, di interessi si occupa la politica, i politici — tutti i politici sono in qualche modo portatori di interessi: anche per questo sono esposti al giudizio politico. Pensare che ciò che è di proprietà dello Stato sia di per sé neutrale, imparziale e si identifichi con il bene pubblico, da parte di chi lo crede è un’ingenuità, da parte di chi lo fa credere è un’ipocrisia. Eliminare i conflitti di interessi che derivano dalla proprietà pubblica è anch’esso un modo per contrastare, rendendoli più evidenti, quelli derivanti dalla proprietà privata.
Che, poi, da ciò derivi anche un beneficio per le stesse attività da privatizzare e per l’intero sistema economico italiano, è cosa di cui sono assolutamente convinto. Ma in questo caso non è né una premessa da cui partire, né una motivazione con cui giustificare: è un ulteriore incentivo ad adottarlo, un non casuale corollario.
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giugno 5, 2001