Lo psicoromanzo Fiat.
Caro Direttore,
Si nasconde un’ambiguità di fondo nell’usurato adagio, secondo cui ciò che è bene per la Fiat (o per GM) è bene per il Paese, tant’è che la frase la si può anche girare al contrario. Che cosa viene prima? E’ il bene dell’azienda a produrre quello del Paese o viceversa? Questa ambiguità può dar ragione a Sergio Marchionne dei malintesi, anche illustri, che hanno indotto a considerare alla stessa stregua due episodi, Melfi e Pomigliano, che sono invece di natura affatto diversa.
Melfi resta nel solco della tradizionale contrapposizione tra azienda e sindacato. Sia pure in un contesto del tutto diverso a quello attuale, e in una dimensione di un ordine di grandezza inferiore, i 3 licenziati di Melfi sono l’analogo dei 61 di Mirafiori nel 1980. Allora la cosa si risolse in modo positivo per la Fiat, e conseguenze positive ne ebbe il Paese: il successo di Romiti e Callieri fu il segnale di riscossa per un mondo industriale sfiduciato e spaventato. Se si concluderà positivamente, anche la vicenda Melfi avrà effetti positivi sul sistema. Però un fatto emblematico non sarà mai una riforma. Marchionne è il primo a saperlo.
E’ invece una riforma, e sostanziale, quella che egli propone a Pomigliano: adottare il principio che in azienda si possano fare accordi in deroga ai contratti nazionali, e che la regola di maggioranza ne consenta la pratica attuazione, rendendoli vincolanti per tutti quelli che vi lavorano. A Mirafiori- Melfi c’è un capoazienda che prende le proprie decisioni, corre i propri rischi, va avanti per la sua strada, cioè fa il mestiere che gli è proprio. Invece a Pomigliano Marchionne si è presto reso conto che, per realizzare il suo piano, bisogna che siano introdotte modifiche istituzionali, per via contrattuale o legislativa: deve chiedere un atto politico. In USA la politica, presidente Obama in testa, gli offre un sostegno senza pari, il sindacato lo asseconda, tutti condividono la tensione verso il turn around. In Italia, trova un Governo che non va oltre il consenso verbale, il maggiore sindacato che si oppone, il sentimento popolare che, se va bene, è diffidente: Marchionne deve rivolgersi quindi all’opinione pubblica. Alla vigilia del referendum aveva scritto in prima persona a ciascuno dei dipendenti. Due mesi dopo, a Rimini, indica esempi da imitare, propone cambiamenti nella visione del mondo e di sé nel mondo: deve avventurarsi sulla stretta cengia tra progetto industriale e proposta politica.
Rendere contrattualmente possibili “scommesse” aziendali con compartecipazioni ai benefici in caso di raggiungimento degli obbiettivi, è necessario se l’Italia vuole restare un Paese industriale nel mondo globalizzato. Per crescere, per attirare investimenti esteri, Pomigliano deve diventare la regola, non l’eccezione. Ma queste innovazioni contrattuali, la Fiat da sola non è in grado di porle in essere, la Fiom si oppone ad accordi per renderle possibili, il Governo non è intenzionato a fare alcunché, l’opposizione fa il pesce in barile. Era tutto chiaro a Marchionne fin dall’inizio, oppure pensava di poter risolvere il problema nel quadro di Fabbrica Italia? E’ stato preso in contropiede dalle difficoltà dell’esecutivo, timoroso che perfino la nomina del Ministro del MSE possa turbare i suoi precari equilibri? Ora che si è venuta a creare una situazione di stallo, per riempire il vuoto Marchionne è obbligato a dare valenza di interesse generale al suo progetto, spendendo la propria storia e il proprio carisma. Il rischio è che si percepisca più l’interesse dell’azienda che la necessità del Paese, e che Pomigliano sia, se va bene, considerata l’eccezione invece di diventare la regola. Rischio per il Paese, naturalmente.
Marchionne non sarà certo turbato da quanti preferiscono la lotta sociale ai patti sociali, e lo accusano di fare proposte che spera siano rifiutate, ed avere così il pretesto per disimpegnarsi, da Pomigliano o dall’Italia. Ma Marchionne sa che ci sono anche altre domande, e che meritano risposta. Se il problema principale sia la produttività di Pomigliano o la disponibilità di modelli adeguati a raggiungere gli obbiettivi di vendita; se portare il grado di utilizzo di capacità produttiva degli stabilimenti italiani, oggi davvero miserevole, a livelli polacchi basti a compensare il differenziale di costo del lavoro che la globalizzazione consentirebbe di lucrare. In altre parole, se quello che è di sicuro un bene per il Paese sia un bene sufficiente per la Fiat.
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Franz
14 annoe fa
Mi chiedo se gli investitori stranieri possano davvero essere attratti in un Paese dove per un gravissimo incidente sul lavoro il capo della compagnia è rinviato a giudizio per omicidio doloso.
Chissà se quando l’imputato in questione incontra i suoi pari a Saint Moritz, o Miami, o altrove e questi gli chiedono come va il suo processo in Italia, se è finito…no, non ancora. Allora corriamo ad investire in Italia.