Fughe lontane di ebrei, fedeltà sabaude. Avvocature, eserciti e visite in Monferrato. La lirica e Torino, le belle calligrafie. Storia di un’educazione non solo sentimentale.
Venivano entrambi da gente che era dovuta fuggire, i miei due nonni. Quello paterno si chiamava Israel, era uno dei quindici figli di nonna Dolcina, la sorella di Isacco Artom. Il diminutivo Lilin doveva portarselo dietro dall’infanzia, se lo trovò lì bell’e pronto per quando il suo nome vero sarebbe suonato un po’ troppo esplicito. Me lo ricordo, il nonno Lilin, quando andavamo a trovarlo ad Asti: non mi piacevano tanto i suoi baffi un po’ umidi quando mi salutava con un bacio.
Che noi si venga dalla Spagna di Isabella la Cattolica lo credono tutti i Debenedetti, gli attaccati originari e i più recenti staccati. C’è un le-vet Baruch attestato a Sabbioneta a scrivere un commento al Talmud, ma poi mancano alcuni anelli nella genealogia. Come arrivarono in Italia, via mare o via terra, da Livorno o dai Pirenei attraverso il sud della Francia? In questo caso potrebbero essere passati dall’Aquitania, magari in quello che oggi è il dipartimento Lot et Garonne, dove c’è la cittadina Fumel, il cui castello nel medioevo era di proprietà della famiglia dei Cavalieri di Fumel, che di lì nella Guerra dei cent’anni controllavano la valle del Lot. La Vandea è più a nord, ma neppure l’Aquitania fu un luogo salubre durante il Terrore: il 9 Termidoro dell’Anno II, il conte Joseph de Fumel fu portato al patibolo. Per non fare la stessa fine i Fumel antenati del mio nonno materno fuggirono verso la Savoia e il Piemonte. E così io ho un nonno che discende da quelli che fuggirono dai cattolici, e un nonno che discende da quelli che fuggirono da cattolici. Sarebbe per Walter Benjamin un “appuntamento misterioso tra le generazioni”?
Il nonno Fumel si chiamava Sciamil, un nome insolito. Shamil è il leggendario eroe dell’indipendenza caucasica dai russi, che organizzarono diverse spedizioni per catturarlo, ma non riuscirono a sconfiggerlo. La sua fama si diffuse in tutta l’Europa occidentale, all’epoca della Guerra di Crimea veniva visto come un romantico combattente per la libertà. Aveva sedotto anche i miei bisnonni? I “para-vandeani” fuggiti dalla rivoluzione dell’89 erano diventati, nel giro di qualche generazione, appassionati sostenitori della ribellione di un popolo contro il potere delle monarchie? Un altro appuntamento misterioso”? Oltretutto Shamil faceva Imam Shamil, un musulmano piuttosto integralista: tanto per non farsi mancare nulla. Di certo i Fumel si dovevano essere integrati bene in Piemonte: Pietro, il padre di mio nonno Sciamil, aveva fatto gli studi militari, aveva preso parte alla Prima guerra di indipendenza col grado di tenente; l’avere organizzato nel 1859 la difesa di Ivrea in previsione di un attacco austriaco gli fece far carriera, fu inviato a Bologna ad appoggiare la rivolta popolare contro il Pontefice. Da colonnello poi fu mandato in Calabria a domare il brigantaggio, dove impiegò metodi brutali. Nei salotti dei Guermantes, ancora diversi anni dopo, c’era chi non perdonava quelli che avevano mandato al patibolo “les nótres”; a Círò, Pietro Fumel, nel frattempo promosso generale di brigata, emanava un bando di crudele durezza. Ne giunse notizia fino a Londra, dove Lord Alexander Baillie-Cochrane ebbe a dire che “un proclama più infame non aveva mai disonorato i giorni peggiori del regno del terrore in Francia”.
E anche il mio nonno paterno, il nonno Lilin, doveva sentirsi bene integrato nell’Italia unificata, se, avvocato, era stato eletto presidente della Comunità a 58 anni, e poi lo era rimasto per 20 anni; ma aveva sposato Olimpia, una gojah, e ai suoi sei figli maschi aveva dato nomi regali, e a uno quello di Umberto. Forse perché nato nel ’94, quando Umberto di Savoia compiva 50 anni? Li aveva mandati tutti alla scuola ebraica, e furono tra gli ultimi prima che l’Istituto Clava chiudesse per mancanza di allievi. Ma nell’insieme il Dio di Abramo non dev’essersi risentito: tutti i suoi figli andarono soldati, tutti sopravvissero a guerra e a spagnola. I suoi figli e i suoi nipoti passarono indenni anche attraverso gli avvenimenti tremendi della Seconda Guerra. Era tenente colonnello di artiglieria a cavallo il nonno Sciamil, il nonno che non ho ma conosciuto. Era morto a Spilimbergo, un infarto alle grandi manovre. Era l’agosto del 1909, mia madre aveva sette anni. Ma era vivissimo in lei il ricordo della sua tenerezza: l’ultima lettera che le scrisse dal campo, inquadrata in una cornice in legno in stile floreale, è sempre stata nella sua camera da letto, e attraverso bombardamenti, sfollamenti e quant’altro capitò in quegli anni, è giunta fino a me. Mia madre a volte me la leggeva, e io guardavo quella scrittura inclinata, perfetta, le righe diritte, vergate con quell’inchiostro che il tempo e la luce avevano sbiadito. Pensavo che avevo più o meno la stessa età che aveva lei quand’era morto il suo papà. Qualche anno dopo avrei pensato a come deve aver vissuto la mia nonna Emilia, vedova a 34 anni con due bambini, una pensione per il marito morto in servizio (ma non per causa di servizio), attraverso la guerra, il dopoguerra, l’inflazione. Un anno intero di lutto strettissimo, mi raccontava, lei e sua sorella Teresa che, sette mesi prima, nel terremoto di Messina del 28 dicembre 1908, aveva perso un figliolino di cinque anni, e il marito, il capitano di Stato maggiore Pietro Prunas Tola, che lì si trovava in procinto di prendere il comando della piazza di Messina.
Dei miei nonni paterni ho ricordi superficiali: quando si andava a trovarli era un po’ come andare in visita, prima loro, poi gli zii e i cugini, tutto in un pomeriggio. La cultura del lato Debenedetti l’ho ricevuta da mio padre: è la cultura dominante, e non solo perché si è trasmessa in modo più diretto, saltando una generazione. Invece la cultura dei Fumel mi viene dalla nonna Emilia. Due culture diverse: dal lato Debenedetti avvocati, medici, banchieri, imprenditori; dal lato Fumel militari e magistrati (il papà della nonna Emilia era stato procuratore generale del Regno). In comune lo schietto sentimento monarchico, gli uni perché funzionari del regno dei Savoia, gli altri perché dai Savoia erano stati emancipati. Diversi gli accenti: mio padre riconosceva le differenze di dialetto tra Borgo San Paolo e Borgo Vanchiglia, la nonna Emilia a stento capiva un dialetto qualsiasi. Diverse le villeggiature estive, mio padre nelle vigne su e giù per le colline del Monferrato, mia nonna nei pascoli distesi e le umide stalle della Bassa lombarda. Diverse le battute: mio padre che da bambino non capiva perché suo padre si lamentasse se “a l’han butà le tase n’s'i pugioej”; mia nonna che da adolescente era avvampata quando un amico di famiglia aveva scritto sul suo libretto di autografi “Fior di mughetto, non ti scordare Emilia di metterti il sacchetto”.
La nonna Emilia venne ad abitare a Torino, in Via Montebello, vicino alla Mole Antonelliana che, non più sinagoga, da pochi anni era stata completata. Più tardi, i figli sposati, era andata a stare con la sua mamma, la nonna Bianca, in una bella casa nello stile della via Roma appena rifatta, che dava sui giardini reali. Andare a trovarla era tutt’altra cosa che andare dai nonni di Asti. Uscivamo insieme noi due, il divertimento consisteva nel prendere insieme il tram, il numero 16, che faceva “il giro dell’oca”, tutto intorno a quella nostra Torino. Lei mi indicava i luoghi, e me ne raccontava le storie. Storie sabaude, perlopiù: come tutte quelle spalline di alta uniforme che tappezzavano le pareti della Consolata, dove si andava insieme a guardare gli ex voto. Poi la casa fu colpita da una bomba in uno dei primi bombardamenti di Torino; seguì lo sfollamento, e poi, per noi, la fuga in Svizzera. Lei, una Fumel, vedova di un ufficiale, figlia di un magistrato, non aveva di che temere. Fu lei lo snodo tra i Debenedetti che erano di là, e i parenti, amici, soci che erano rimasti di qua: le lettere dalla Svizzera andavano a Chiasso dove un amico di mio padre, funzionario di dogana, le apriva, ne portava il contenuto oltre frontiera e lo rispediva alla nonna Emilia che, dal convento delle suore di Revello, distribuiva i messaggi e faceva da collettore delle risposte, che rispediva nello stesso modo.
Che bella scrittura che aveva! Lei poi in modo superlativo, ho dei suoi quaderni di calligrafia, da non credere, potrebbero essere un manuale. Ma scrivevano bene tutti: ho un libretto regalatole da una sorella quando aveva 19 anni: con quale eleganza vi aveva trascritto brani di Victor Hugo e di Paolo Mantegazza, di Paul Verlaine e di Edouard Pailleron, oggi dimenticato insieme ai suoi successi.
“De cette simple et tendre et chaste comédie / Vous étes l’héroine et je vous la dédie. / C’est un roman d’amour qui se passe entre nous, / Un rève plein de vous mais ignoré de vous.
Car j’ai si bien caché ce que j’ai voulu taire / Que mon oeuvre à grand jour gardera son mystère / Et, méme en le voyant, vous ne saurez jamais/ Que c’est vous dont je parle et que je vous aimais”.
Mayerling accadde nel 1889, ma nel 1894 affascinava ancora la fantasia dell’adolescente, che ne riempiva alcune pagine del libretto. Era anche nella mente dell’avvocato di Asti quando nel 1892 gli nacque un figlio e lo chiamò Rodolfo?
Quando ritornammo dalla Svizzera avevo 12 anni, troppi per il “giro dell’oca” col tram numero 16. Mi portò invece all’opera, la nonna Emilia, feci in tempo a sentire il “Barbiere di Siviglia” con la Toti dal Monte, che proprio nel ’45 si ritirò dalle scene. Era sua “la voce poco fa” che giorno dopo giorno, insieme alla trama di un’opera, agli aneddoti di cantanti e di direttori famosi, mi trasmetteva i ricordi di fatti e di giudizi, la cultura del ramo materno della mia famiglia. Dei concerti Martini & Rossi non se ne perdeva uno, a volte ero anch’io lì vicino, e magari sul tavolo c’era il libro di greco (che, a quanto pare, il nonno Lilin leggeva correntemente). Mio padre era pure lui appassionato di opera, ma del Wagner di quando aveva frequentato il politecnico e dello Strauss di quando avrebbe frequentato Salisburgo. Sia lui che la nonna avevano studiato pianoforte, entrambi l’avevano abbandonato da decenni, ma mio padre suonava ancora le prime pagine della trascrizione del preludio dei “Meistersinger”, mia nonna strimpellava le prime battute del minuetto di Paderewski. Io passavo le ore sul mio Hanon.
In tutte le storie c’entra l’amore, c’entrava anche in quelle che mi raccontava. Ma sotto sotto c’entrava anche l’onore, non quello melodrammatico, né quello passionale: forse era semplicemente dignità. Che è quello che ti permette di ritrovare sempre te stessa quando sei figlia di un magistrato, scrivi pensieri d’amore sui quaderni di adolescente, rimani vedova a 34 anni, hai due bambini da crescere, e hai ancora due guerre davanti a te.
La nonna Emilia non l’ho ma vista un giorno senza la gorgère bianca di gros grain. Il nonno Lilin lo ricordo in casa sua con il Borsalino in testa.
E tu chiamali, se vuoi, borghesia.
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agosto 25, 2015