La presentazione del rapporto Cer è stata l’occasione per un nuovo sviluppo nella polemica divampata in queste settimane sui maggiori organi di informazione nazionale e internazionale su come sono gestiti i conti al Tesoro, in vista del raggiungimento del famoso 3% di deficit necessario all’Euro. Il sottosegretario Piero Giarda, avvocato d’ufficio del Tesoro, ha respinto con energia le accuse mosse da Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera e da James Blitz sul Financial Times.
E mentre lo ascoltavo impegnato nella sua appassionata difesa, non ho potuto fare a meno di registrare in me una crescente sensazione che mi provocava, lo ammetto, effetti rassicuranti. Di che si trattava? Mi sembrava di tornare indietro nel tempo, quando il mio mestiere era quello di rappresentante non della sovranità popolare, ma di un azionista per gestirne l’azienda. Allora capitava — è capitato — che l’aumento dei costi, o l’andamento delle vendite, rendesse necessario comprimere le spese: in quel caso inutile era invocare il bilancio preventivo, il budget veniva rivisto, e le spese controllate non solo per funzione, ma assai più stringentemente per natura. Come ogni manager sa, in questo modo si realizzano le correzioni in corso di esercizio rispetto al bilancio preventivo: Franco Tatò, per esempio, è su questo specifico terreno, un maestro insuperato.
Ascoltando Piero Giarda la rassicurante impressione era quella di vedere adottata questa prassi dell’impresa privata anche nei conti della pubblica amministrazione. In effetti dallo scorso anno il Tesoro si è dato una linea innovativa: rispetto alle spese di competenza autorizzate dalla finanziaria. dapprima ha parzialmente prosciugato i conti correnti delle varie amministrazioni pubbliche, e poi ha preso a contrattare in maniera restrittiva il ritmo di esborsi dalla tesoreria centrale. La differenza tra le somme che la PA. è stata autorizzata dal Parlamento a spendere e quelle che il Tesoro le ha effettivamente fornito e che essa ha a sua volta erogato, forma i cosiddetti «residui passivi»: oggi essi ammontano a 300.000 miliardi, dei quali ben 140.000, ha denunciato il Financial Times, accumulato nell’ultimo anno per effetto della drastica chiusura del rubinetto effettuata dagli uomini di Ciampi.
E’ rispetto a questa prassi innovativa che si sono scatenate le polemiche. L’accusa è che siamo in presenza di un modo di truccare i conti, non di risparmio vero: infatti queste somme «appartengono» alle amministrazioni, sono loro in forza di leggi votate dal Parlamento, in base ad esse le amministrazioni hanno stipulato contratti con fornitori. Impegni presi da amministratori pubblici in base a leggi votate dovranno prima o poi essere onorati: non si tratta quindi di risparmi, ma solo di rinvio di spese.
Giarda non ha certo negato il fenomeno. Resta sicuramente vero che il Tesoro dovrà impegnarsi a estenuanti trattative con le amministrazioni pubbliche desiderose di poter spendere entro i limiti del consentito più di quanto via XX Settembre rende concretamente disponibile. Tuttavia, ha puntigliosamente ricordato Giarda, «considerando un campione di circa 100 enti locali si osserva che la crescita della spesa è stata sistematicamente minore per quegli enti che hanno avuto la maggiore riduzione della rispettiva giacenza sui conti di tesoreria». Si tratta di un effetto dovuto a leggi economiche o a principi del diritto, si tratta — Giarda lo ha riconosciuto — di una forma di «illusione monetaria» ben nota a ciascuno di noi: si spende meno se si hanno meno soldi in cassa e a lungo andare ci si abitua a spendere meno.
Tra me e me sentivo istintivamente il piacere che un manager privato prova nel veder adottato da un funzionario pubblico criteri che sono parte operante della vita di milioni di individui, di migliaia di imprese. Tuttavia, mentre ancora Giarda parlava, non ho potuto fare a meno di registrare un nuovo sentimento che pian piano si affiancava al primo fin quasi a sopraffarlo. Questa «privatizazione» dei criteri con cui sono gestiti i conti pubblici, purtroppo, trova ben presto i suoi limiti. Già, perché in un’impresa privata, all’azione di contenimento delle spese seguono le modifiche strutturali che ne eliminano le cause; mentre alla stretta finanziaria del Tesoro raramente fa seguito il ridisegno di funzioni, che riduca l’area di intervento dello Stato per concentrare le risorse sulle attività qualificanti. Ma soprattutto, nell’impresa privata, il manager sarà sottoposto alla pressione, certa ed inesorabilmente costante, dell’azionista al quali egli risponde: cosa che non è affatto detto che avvenga al Tesoro. Oggi — ed è un loro grande merito — gli uomini impegnati al Tesoro riducono le spese di cassa rispetto alla competenza, ma niente impedirà domani, mutato l’indirizzo di non adeguare le previsioni di spesa di competenze alle più basse uscite di cassa effettivamente registrate. Lo dimostra una storia non troppo lontana, quella dell’esplosione del deficit degli anni successivi a quelli in cui Andreatta al Tesoro tentò — sia pur con strumenti diversi ed esiti meno rilevanti — un analogo contenimento della spesa, nel 1981 e 82. In altre parole ho pensato mentre Giarda concludeva il suo intervento, il monito di Giavazzi del Financial Times sui rischi potenzialmente esplosivi di un tale «bottino» residui passivi è assolutamente fondato. Oltretutto contiene in sé una inevitabile verità: per quanto lodevole Ciampi oggi, nessuno davvero pensa che Franco Tatò possa fare nella pubblica amministrazione ciò che fece in Mondadori.
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novembre 28, 1997