Ma noi, oggi, siamo più forti o più deboli? È stata questa la prima reazione alla notizia che Nicola Rossi ha deciso di uscire dai DS. Dove quel “noi” indica quanti sono assolutamente convinti che i mali di questo Paese sono antichi, e si possono curare solo con riforme liberali che incidano in profondità. Perché Nicola Rossi questa convinzione sa arricchirla di iniziative e argomentarla con rigore.
La sinistra è al Governo: ma le riforme vengono rinviate o rifiutate. C’è Prodi, che nega l’esistenza di una divisione tra riformisti e conservatori. C’è il Governo, che ha varato una Finanziaria “con cui – secondo Rossi- si è intrapresa una strada inadeguata alle esigenze del Paese”. Ci sono i DS: è a loro che, con le sue dimissioni, Nicola Rossi rivolge in primo luogo la sua accusa. Ed è da qui, da quanto è successo al fronte riformista all’interno dei DS, che si deve partire se si vuole analizzare il suo gesto.
Piero Fassino ha commentato l’uscita di Rossi dicendo che i DS sono e restano da sempre riformisti: non è così, nei partiti e in politica le idee camminano sulle gambe degli uomini, e tra i DS coloro che più avevano abbracciato la rivoluzione mercatista all’inizio degli anni 90 sono finiti tutti o fuori o ridimensionati: Rossi, dopo Agostini, Turci, Salvati, il sottoscritto ed altri. Damiano ministro del lavoro si muove non da riformista, ma da attento e oculato gestore del consenso – che è una componente del riformismo – su ciò che dicono i sindacati, non su ciò che la politica indica come obiettivo. La sconfitta dei riformisti data dalla battaglia tra D’Alema e Cofferati al congresso di Roma del 2000, prima di perdere le elezioni del 2001. Da allora non ci si è più ripresi perchè l’idea è stata quella della santa alleanza: e se si vogliono tenere tutti uniti a prevalere sono gli obiettivi dell’estrema.
Il riformismo non è stato rafforzato né da tecnici –Tommaso Padoa Schioppa lo sacrifica al suo algido rigorismo – né da nuove generazioni di diessini, allineati nei congressi locali e nazionali per assicurare truppe fedeli al segretario. Si sente la mancanza di Amato su temi che erano suoi. Prevale l’idea di difendere i DS dalle pretese eccessive della Margherita, la preoccupazione di tenere dentro tutti nel Partito Democratico, dagli ex correntonisti ai neosocialisti, lasciando a Walter Veltroni gli orizzonti “valoriali” che appaiono modernizzatori, ma sui problemi concreti (vedi vicenda taxi) ricordano mediazioni d’altri tempi.
Si sono qualificati per mercatisti esponenti politici che scambiavano la spolveratina dei tempi della privatizzazione e dell’accreditamento alle grandi banche internazionalicome una vera e propria svolta politica. Ma il grosso del partito ha considerato quelle vicende non come il taglio alle vecchie radici, bensì come l’adesione togliattiana a punti di vista volta per volta più convenienti; vivendole in realtà, per nulla togliattianamente, con imbarazzo, al punto da mettersi da se stessi in un angolo sulle vicende Unipol e RCS. Appena gira il pendolo si torna alla convinzione che “democrazia e mercato non sono affatto coerenti l’uno all’altro”, come ha incredibilmente scritto Alfredo Reichlin nel suo ultimo articolo sull’Unità.
Blair ce lo si è fatto piacere per una breve stagione, oggi è tramontato come puddle di Bush, Pensano che dirsi riformisti sia barare sulle cifre della finanza pubblica per allargare il perimetro dello Stato e avere molte risorse da spendere: vecchio socialismo prethatcheriano, nulla a che vedere col riformismo vero. Zapatero avrà fatto fuochi d’artificio sui diritti civili, ma sulla politica economica non ha toccato praticamente nulla di quanto gli ha lasciato Aznar.
Alcuni di noi invece eravamo e restiamo convinti che più mercato serva oltre che a svecchiare rendite di posizione dell’asfittico capitalismo italiano, anche per concentrare meglio poche risorse dello Stato verso la “redistribuzione delle opportunità”, eliminando le distorsioni imposte al nostro welfare dai grandi sindacati e dalle grandi imprese. E quanto ai riformisti più organici al partito, non hanno accettato di vivere fino in fondo come corrente di minoranza, e di compromettersi in battaglie politiche portate al limite della rottura: né, tanto per fare un esempio, a favore della riforma delle pensioni all’epoca del primo governo Berlusconi, né a sostegno delle proposte di Pietro Ichino, prima per la redistribuzione delle garanzie del posto di lavoro nelle imprese private, oggi per abbatterne l’intoccabilità nel pubblico impiego.
Molte volte mi ero posto la domanda se, restando nel gruppo parlamentare e nel partito, portassi consensi alle iniziative liberali, o invece perpetuassi l’illusione nella capacità riformista del partito. Ma allora c’era da dar battaglia per evitare che opposizione significasse solo antiberlusconismo militante: il partito era il luogo per farlo. Il partito sembrava un contenitore ampio e persino il rifiuto opposto alla mia ricandidatura mi parve, più che l’impennata di una reazione politica, l’appiattimento sulla regola burocratica delle tre legislature. Le dimissioni di un politico del peso di Nicola Rossi dal più grosso partito della maggioranza genera onde benefiche nel pelago precongressuale. Investono le questioni di fondo del nostro assetto politico: il bipolarismo, come sistema che ha le maggiori probabilità di realizzare le riforme; lo schieramento di centrosinistra, come quello che ha, al momento, le maggiori capacità di farlo. Questi sono i temi: su di essi ti aspettiamo, Nicola.
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gennaio 4, 2007