Dopo tre anni di inchieste, Marco Tronchetti Provera e Carlo Buora non sono più oggetto di indagine: non saranno rinviati a giudizio per la vicenda del dossieraggio economico e politico compiuto da manager della sicurezza di Telecom Italia. Restano indagati, oltre ai responsabili della security di Giuliano Tavaroli, le società Telecom e Pirelli.
Poiché la legge 231 sanziona la responsabilità delle società, amministrativa ma da accertare in sede penale, si deve intendere che, per la procura, tra i vertici apicali delle aziende a cui viene contestato il reato di corruzione non sono compresi chi allora ricopriva le cariche di Presidente e di Amministratore Delegato. Eventuali loro negligenze sarebbero di natura civilistica.
Quanti sono perseguiti dalla giustizia e si protestano innocenti possono trarre da questo episodio motivo di conforto: dovranno sopportare l’afflizione di un’ accusa ritenuta ingiusta, ma basterà loro aspettare “che la giustizia faccia il suo corso”. Ci sono però casi in cui non tutto rientra nel gran libro mastro del “quidquid boni feceris et mali sustinueris”. Infatti, nel frattempo, succedono fatti, che sono conseguenza dell’accusa, e che non si disfano quando questa si dimostra infondata. In questo caso il fatto è stato il cambiamento di proprietà di uno dei più importanti gruppi industriali del Paese. Telecom Italia attraversava un periodo critico su molti fronti, economico, politico, regolatorio. Ma c’è stato un momento in cui a leggere i giornali sembrava che nell’azienda che coi suoi doppini di rame collega le case di tutti gli italiani si fosse installata una Spectre che intercettava tutte le nostre conversazioni, a piacimento suo, e di chi glielo chiedesse e pagasse. Il bombardamento mediatico è stato talmente violento da indurre a pensare che abbia avuto un ruolo decisivo nel determinare prima le dimissioni di Tronchetti Provera dalla presidenza di Telecom Italia, e poi la sua uscita quale azionista di riferimento.
C’è dunque una questione di interesse generale a cui rimanda questa vicenda: questione che sorge quando la diffusione della notizia di un fatto ha conseguenze che sono senza proporzione con il fatto stesso, e che sono irrevocabili. Ciò che rende il caso Telecom emblematico è che qui il problema si presenta a sé stante, per così dire allo stato puro: a differenza di altri casi (ad esempio uno che riguarda la stessa Telecom, in occasione del precedente passaggio di proprietà) qui infatti la magistratura, le intercettazioni, i verbali non c’entrano. E non c’entra neppure un radicale cambiamento strategico, imposto da mutamenti tecnologici o di mercato: il nuovo assetto proprietario, con la spagnola Telefonica come socio industriale, è, come struttura e strategia, lo stesso che Tronchetti aveva individuato e proposto, la sola differenza è che Olimpia ha dovuto passare la mano. Qui il fatto – il dossieraggio illegale – c’era, i rapporti impropri con le strutture di sicurezza c’erano, il coinvolgimento di strutture apicali pure: ma colpisce la mancanza di proporzionalità tra tutto questo e il passaggio di proprietà di Telecom.
Invece di imboccare il vicolo cieco della solita retorica della responsabilità del giornalista, dei fatti e delle opinioni, conviene chiedersi chi effettivamente sia stato causa di che. Se cioè il bombardamento mediatico, le inchieste, le falsificazioni (quella sulle intercettazioni), i collegamenti trasversali con altre vicende (Abu Omar e le extraordinary renditions) sono state esse ad avere prodotto il cambiamento di assetto azionario in Telecom, o se invece tutto ciò non sia stato strumento nelle mani di qualcun altro.
Sono propenso a credere che la causa non siano le campagne giornalistiche. Allo stesso modo per cui non credo che siano state le televisioni commerciali ad avere creato un ambiente naturaliter berlusconiano; o che Grillo rappresenti una minaccia alla democrazia. E’ la politica a far sì che le notizie assumano carattere performativo, e diventino esse stesse un fatto. Non sono stati i giornali a bocciare l’ipotesi AT&T e American Movil, né a scrivere il piano Rovati, né a bocciare Telefonica quando a proporla era Tronchetti. Non è una coincidenza che a tuonare contro il “messicano strano strano” fosse lo stesso Di Pietro che poco tempo dopo avrebbe fatto abortire la fusione Autostrade Abertis. Non è né per i giornali né per la magistratura se la vicenda Unipol-BNL è stata assimilata a quella Antonveneta, da cui era interamente diversa. Casi tutti in cui a decidere degli assetti proprietari non sono stati gli azionisti, che sono stati usurpati dei loro diritti da politici o da regolatori che travalicano i loro poteri.
Questa storia ha dunque una morale. Mentre chiedere di mettere la mordacchia ai media è inutile e produce solo effetti negativi, chiedere alla politica di star lontana dalle imprese – sempre, e massimamente quando sono state privatizzate – è cosa possibile e produce solo vantaggi. Perché il burattinaio non è quello che fa i burattini, ma quello che tira i fili.
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luglio 20, 2008