Questa volta sarà l’ostensione della Sindone, la prossima il centenario della fondazione della Fiat: le visite ufficiali – e quella del presidente del Consiglio lunedì non fa eccezione si organizzano perlopiù intorno a un fatto, o a una ricorrenza, di rilevante valore evocativo. Ne risulta sovente un accoppiamento, e l’evento proietta la propria carica simbolica su tutta la visita.
Nel caso presente questo è il primo rischio da evitare: si lasci a Prodi tributare alla Sindone l’omaggio di un cristiano praticante. E poi si parli con il presidente del Consiglio di Torino, del suo presente e del suo futuro.
Innanzitutto un consiglio, il tono: non lamentoso nel chiedere, non arrogante nel pretendere. Questa da sempre è Torino quando si rivolge al potere centrale.
Il sindaco parlando a nome della città, descrivendone i problemi, si rivolge insieme al capo del governo ed ai suoi concittadini: è dalle azioni del governo ma è soprattutto dalla mobilitazione delle proprie risorse che Torino può trovare i mezzi per scrivere nuove pagine nella storia del proprio sviluppo.
Tre sono i capitoli del libro che insieme dobbiamo scrivere: il primo è quello del collegamento di Torino con il sistema europeo delle ferrovie di nuova generazione, quelle che in tutto il mondo con orgoglio si chiamano alta velocità e che in Italia bisogna con pudore tradurre in alta capacità. La scelta se il tratto Est-Ovest di questo sistema debba passare a Nord o a Sud delle Alpi non dipende solo da noi che ne siamo attraversati ma assai di più dai Paesi che dovranno essere collegati.
La Francia, che di questo sistema è stata la promotrice e che dispone ormai di una vasta rete, avrà un peso particolare in questa decisione. Se noi non realizzassimo il collegamento Est-Ovest con la Francia, non solo Torino sarebbe emarginata, ma l’intera Pianura Padana sarebbe isolata. Il Paese può permettersi il rischio di vedere la quasi totalità del proprio sistema produttivo allontanarsi dalla principale direttrice Est-Ovest?
Il secondo capitolo riguarda gli interventi che Torino – in questo caso a nome del Nord-Ovest – deve chiedere per agevolare l’evoluzione del suo sistema produttivo.
Torino vive da sempre con preoccupazione perlopiù immotivata il proprio rapporto con l’industria che l’ha resa grande, ed ora guarda con angoscia anche eccessiva alle conseguenze che hanno avuto e avranno l’evoluzione delle tecniche organizzative e l’abbattimento delle barriere al commercio: l’espulsione di personale dalla Fiat e dall’indotto è un fenomeno che sarebbe controproducente pensare di arrestare.
Ma esso ha prodotto quelli che Marco Revelli chiama «i legionari», lavoratori in proprio pronti ad ogni flessibilità nell’indotto. Nel Nord-Est l’analoga espulsione dall’agricoltura ha conosciuto già una successiva fase del processo, dando luogo ad un tessuto di microimprese, poi aggregatesi in distretti. Si tratta ora di pensare e di attuare al contempo una serie di misure perché a Torino questo processo emerga dal nero in cui – più spesso di quel che si creda – è anche da noi costretto dal peso fiscale. Il problema, in altre parole, è di offrire un volto comprensivo e non arcigno a questa miriade di «imprese» individuali, usando gli stessi strumenti che il governo sta – con fatica – adoperando nelle aree svantaggiate del Paese, cioè i patti territoriali, ma con l’aggiunta specifica di una sperimentazione ad hoc in materia fiscale e contributiva.
C’è poi un terzo capitolo, quello della nuova Torino che ha affiancato quella tradizionale: Torino, forse senza che ne abbiamo piena coscienza, è diventata una delle piazze finanziarie più importanti del Paese. Qui ci sono: la più grande banca italiana, il S. Paolo Imi; Ifi e Ifil, che si è assai espansa in Francia con la conquista della Worms; un gruppo di società di assicurazione, dalla Reale alla Vittoria.
Perché non usarla per provare a sviluppare a partire da Torino e dal Nord-Ovest un’attività finanziaria che in Italia finora ha stentato ad attecchire? Si pensa al venture capital, che altrove è un’attività finanziaria sofisticata ma di rilevanti dimensioni, e che nel contempo si è rivelato come lo strumento più potente per creare imprese e lavoro. In America si devono al venture capital la maggioranza dei nuovi posti di lavoro; in Germania in pochi anni si sono create alcune migliaia di piccole aziende nel campo delle biotecnologie. Lo strumento da noi è stato provato più volte senza decisivi successi. Per attivarlo davvero bisogna offrire al risparmiatore, in contropartita di un investimento a rischio elevato, condizioni fiscali attraenti; esenzione dall’Irpef delle somme – fino a un certo ammontare – investite in fondi che fanno venture capita!, ed esenzione dall’imposta sul capital gain quando si vende la propria partecipazione.
A Torino e in Piemonte ci sono le condizioni ideali per far partire su basi nuove queste iniziative: da un lato la struttura finanziaria, dall’altro cultura di impresa, competenze, una tradizione di serietà ed un’immagine di credibilità. Si continui pure, altrove nel Paese, con i tradizionali strumenti di intervento diretto, le ottime agenzie di sviluppo, le meritorie imprenditorie giovanili. Perché non chiedere a Prodi di sperimentare invece a Torino e nel Nord-Ovest i meccanismi di mercato? Forse funzionano meglio, e certo costano meno.
maggio 24, 1998