Il progetto istitutivo delle Autorità dei servizi di pubblica utilità, licenziato dal Senato, sta incontrando alla Camera notevoli intoppi. A quelli di natura strumentale, volti solo a rallentare le privatizzazioni, ora si è aggiunto il desiderio di cogliere l’occasione per regolare anche l’assetto del sistema televisivo: ossia, fare un’autorità delle comunicazioni anziché un’autorità delle telecomunicazioni. Che la cosa abbia una sua logica è innegabile: la convergenza tra telefonia e tv è in atto, non solo perché una volta ridotte a stringhe di bit i due tipi di segnali sono non distinguibili (ma anche i cromosomi dei liberisti e degli statalisti sono fatti delle stesse quattro basi), ma perché i due mercati si stanno fondendo.
Il mondo della tv in Italia risente di molteplici anomalie: problemi di concentrazione monopolistica, di incompatibilità tra proprietà e cariche pubbliche di pluralismo dell’informazione, di privatizzazione di Stet e Rai, di competizione politica (che in alcuni è la tentazione di regolare i conti una volta per tutte con un avversario), generano un intreccio micidiale, in cui l’esigenza di avere almeno un mercato concorrenziale nelle telecomunicazioni finisce di far la fine di Cenerentola. La soluzione più logica sarebbe quella di riconoscere che, proprio a causa di queste anomalie, è bene regolare a parte il sistema televisivo: in termini parlamentari, separare la revisione della Mammì, di cui si occupa la Commissione Napolitano, dalla costituzione di un’Autorità per le telecomunicazioni, di cui si occupa la Commissione di merito.
Rifuggendo da un malriposto esprit de géometrie, dalla ricerca di simmetrie che tutto omologhino allo stesso modello, dalle metafore per cui le autostrade informatiche dovrebbero essere simili alle autostrade, o tutte l’è.’ reti come quella ferroviaria, converrà invece, prima di unire, far la fatica di distinguere. Infatti i tre sistemi di cui si compone il mondo delle comunicazioni, il sistema telefonico, quello delle reti-cavo e quello della diffusione televisiva, mostrano profonde differenze in relazione a tre diversi ambiti.
1. Ambiente concorrenziale. Nel sistema telefonico la concorrenza non aspetta altro che le si dia la possibilità di operare; nella tv la disponibilità di investire capitali in un settore già sovraffollato è da verificare.
2. L’interazione tra i sistemi. Quello telefonico e quello delle reti-cavo non possono essere separati: le reti cavo si giustificano solo se possono trasmettere segnali televisivi, e sono economicamente convenienti solo se possono anche fornire servizio telefonico; per converso solo le reti-cavo possono essere i concorrenti dell’attuale monopolista nella telefonia urbana. Invece il sistema tv via etere è solo marginalmente tangente al sistema telefonico.
3. Le problematiche regolatorie. Nel sistema telefonico si tratta di attivare la concorrenza; in presenza di una posizione dominante: dunque materia di pertinenza dell’Antitrust. Nella tv prevale la problematica del pluralismo, anche in relazione ad altri mezzi di comunicazione, materia che la legge assegna al Garante dell’editoria. Nelle reti-cavo sarebbero presenti entrambe le esigenze: ma il pluralismo, intrinsecamente favorito dall’interesse dell’investitore a saturare l’enorme capacità trasmissiva di cui dispone, può essere facilmente garantito per i programmi a contenuto prevalentemente informativo, mentre vincoli alle concentrazioni, magari più stringenti per chi opera anche nel campo della telefonia o della tv via etere, possono essere imposti nella legge specifica che liberalizza il settore.
Si intende affrontare in particolare due argomenti, preminenti nel dibattito in corso: quello dei ruoli delle differenti autorità, e quello del common carrier.
I ruoli delle autorità. Una linea di pensiero vorrebbe raggruppare nell’Autorità di settore tutte le competenze, in particolare sottraendo all’Antitrust le attività svolte in concessione. Basterebbe a tale proposito osservare che sarebbe ben strano se, propri ,quel settore che si vorrebbe diventasse “normale”, Cioè aperto alla concorrenza, venisse trattato come “speciale”, sottraendoli all’autorità a essa preposta. La tentazione di accorpare tutto potrebbe discendere da una scelta politica mai compiutamente esplicitata da quando nel ’90 fu costituita l’Autorità antitrust: se la tutela giuridica dei diritti, nella fattispecie quelli attinenti alla libertà di mercato, debba essere affidata a strumenti legislativi e quindi giudiziari, oppure a un’autorità amministrativa. Guardando retrospettivamente l’esperienza italiana, la risposta non può che essere quella di comprendere anche i servizi svolti in concessione, ma in un assetto di mercato concorrenziale, nell’ambito dell’Antitrust.
Il common carrier. All’esigenza che il proprietario di una rete non adotti comportamenti discriminatori all’accesso da parte di concorrenti, si possono dare due risposte. Una “forte”, che esige la separazione dalla proprietà della rete e dell’operatore, ponendo come questione di principio l’uso pubblico delle risorse scarse assegnate in concessione, analogamente a quanto avviene per le strade. L’altra “debole”, che si pone l’obbiettivo prioritario dello sviluppo del settore, nel rispetto degli interessi di investitori e utenti, e decide pragmaticamente settore per settore. Il primo punto di vista non può, che portare a esiti statalisti, poiché subordina gli interessi del proprietario delle infrastrutture a quello di chi le utilizza per mettere insieme l’offerta di contenuti (ovviamente prodotti da altri), e lo obbliga a perseguire interessi di (presunta) pubblica utilità: la privatizzazione, entrata per la porta, verrebbe scacciata dalla finestra. Chi sostiene il secondo punto di vista ricorda che la resa degli investimenti in infrastrutture dipende dagli investimenti e dalle strategie messi in atto da chi compone l’offerta di contenuti. Separare i due investimenti, mettendo le relative decisioni in capo a soggetti diversi, non fa che aumentare le incertezze e degli uni e degli altri, e quindi produce in mia minore intensità globale di investimenti.
Nella telefonia vocale infrastruttura e servizio sono inseparabili, la rete essendo essenzialmente un programma sw che indirizza i pacchetti di bit. Ma è intrinseco al concetto stesso di telefono il fatto che tutti possano parlare con tutti; quindi ogni operatore, quand’anche disponesse di proprie infrastrutture, deve poter accedere alle reti altrui. Per evitare pratiche discriminatorie da parte dell’ex monopolista, è necessaria la separazione delle sue varie attività, stabilendo condizioni di accesso e di interoperabilità nell’atto stesso di concessione.
Nelle reti-cavo: per il servizio telefonico vale quanto sopra detto. Per i programmi tv di intrattenimento, gli interessi dei concessionari (che nel loro ambito geografico godono di un monopolio naturale) operano in favore della non discriminazione. Se si volesse andare oltre, si dovrebbero stabilire per legge le condizioni economiche del contratto tra chi possiede la rete e chi gli vende servizi, con conseguenze assurde: a che prezzo si dovrà comprare il diritto di trasmettere una partita di calcio nel 2003? Si finirebbe per cadere nella versione “forte”, e postulare un unico cablatore nazionale. Invece, per garantire l’accesso non discriminante ai for-nitori di programmi a contenuto informativo, può valere un meccanismo assai semplice, attivabile dalla richiesta di un adeguato numero di utenti, quale previsto nella proposta di legge che ho presentato in Senato.
Infine, per quanto riguarda la diffusione televisiva terrestre, si desidera sottolineare un aspetto rilevante ingiustamente trascurato nel dibattito pubblico. Le due proposte di legge organica, attualmente pendenti in Parlamento, quella dei progressisti e quella del centro, convergono sulla proposta di conferire a un ente unico gli impianti di radiodiffusione di tutte le aziende televisive. Il fine di questa proposta — che pur deve aver avuto un ruolo nell’ispirare proposte di fusione Stet-Fininvest avanzate e poi smentite — è quello di garantire una pari opportunità alle tv via etere, superando l’attuale disparità di copertura
territoriale a svantaggio di chi ha pochi mezzi. Si tratta di un errore rilevante: si confonde infatti la tutela della concorrenza economica, con la garanzia di pluralità di indirizzi culturali. E in definitiva si configura un “rubinetto” di ultima istanza politica Per l’accesso all’esercizio dell’impresa televisiva. Guardiamo invece le cose come stanno: il numero di reti televisive nazionali è già di nove, più Videomusic e Tmc: numero che francamente appare più che adeguato. Se si vogliono riallocare le reti tra più soggetti, basta prevedere che la vendita di una rete comporti anche la cessione o della proprietà della quota parte dell’impianto relativa a quella frequenza, o del diritto al suo uso. Peraltro avere strutture fisse uniche per le varie reti consentirebbe:. risparmi economici, vantaggi per l’ambiente, una riallocazione più razionale delle frequenze, una più bassa soglia di ingresso a nuovi operatori.
Un impianto televisivo nazionale consta di tre sottosistemi: quello “di contributo”, che porta le riprese effettuate nel territorio agli studi centrali per il post-processing (programmazione, inserimento della pubblicità, effetti speciali); quello “di distribuzione”, che porta i segnali così elaborati alle antenne; quello “di diffusione”, composto da tralicci, impianti di potenza, antenne. Si stima che il valore di questi impianti sia intorno a 1.300 miliardi per Rai e 700 per Fininvest. I sottosistemi “di contributo” e “di distribuzione” sono in tutto e per tutto equivalenti a una rete telefonica bidirezionale a lunga distanza con larga diffusione territoriale (70mila km per fascio televisivo), con la capacità di trasmettere una combinazione di 24 segnali televisivi numerici o di 12mila linee telefoniche digitalizzate: è quindi un’infrastruttura che potrebbe essere utilizzata dal secondo operatore telefonico con investimenti contenuti. Prevedere che la seconda concessione di telefonia di base comporti anche la gestione dell’infrastruttura televisiva, avrebbe il vantaggio di essere perfettamente compatibile con le esigenze di libero mercato e di evitare l’accrescersi di posizioni monopoliste.
Concludendo e riassumendo: se è vero che nel settore della comunicazione tout se tient, è evidente che affrontare simultaneamente tutti i problemi porta alla paralisi, o a un sistema eccessivamente regolamentato_ L’ambizione di disegnare regole per un sistema adatto alle esigenze del 2000 dà spazio alle diverse posizioni favorevoli al rinvio della privatizzazione di Stet. Proprio chi ricorda il primato della politica, chi sente la valenza politica di problemi specificatamente nostrani, dovrebbe su di essi concentrarsi, evitando di rallentare processi di liberalizzazione pure essenziali per il Paese. Soprattutto dovrebbe ricordare che mentre si discute, Sagunto non viene espugnata: ogni giorno che passa in questo stallo rende più lunga, ardua e costosa la strada per dotare il Paese di moderne infrastrutture, favorisce il rafforzamento dei monopoli esistenti. Per questo, insieme a economisti di vari orientamenti politici, Claudio Demattè, Carlo M. Guerci, Sergio Ricossa, ho lanciato un appello ai leader politici per un’agenda delle cose da fare subito, se si vuole avere in futuro concorrenza nel settore delle telecomunicazioni (sì veda «Il Sole 24 Ore» del 29 aprile). L’adozione di quell’agenda consentirebbe almeno di distinguere quelli che hanno a cuore il dare al Paese servizi migliori a prezzi inferiori, e sanno che solo la concorrenza può assicurarli, e quelli che invece puntano al mantenimento dell’esistente: compresi quelli che, pur di buona fede, finiscono per farne il gioco.
maggio 6, 1995