La proposta Mediobanca ha impresso una subitanea accelerazione al processo di privatizzazione della Stet: mentre si sta discutendo di chi avrebbe avuto il ruolo di coordinatore del collocamento, Mediobanca salta un passaggio e mette sul tavolo un’offerta di acquistare le azioni a fermo. Il clamore suscitato fa passare in secondo piano il passaggio successivo, quello realmente portante, e cioè l’assetto finale che si vuole ottenere.
Già è stato ripetuto alla noia (e, si sospetta. col fastidio di alcuni) che l’assetto industriale del settore è ciò che realmente conta nelle privatizzazioni.
Giorgio Lombardo ricorda l’esperienza inglese: i casi, in positivo delle telecomunicazioni, e in negativo di gas ed elettricità, mostrano che se l’organizzazione dei mercati in senso più favorevole alla competizione avviene dopo la privatizzazione, i mercati stentano a nascere, gli investitori subiscono un danno patrimoniale, e i mercati finanziari non si fideranno una seconda volta». Qui si aggiunge una considerazione: la tesi cioè che ruolo stesso delle istituzioni finanziarie dipende dall’assetto che si intende dare al settore. Una ragione in più perché la scelta di ‘politica industriale’ (se mi si passa l’espressione) debba precedere quella finanziaria.
L’assetto del settore può essere immaginato come un punto su un piano che ha su un asse il grado di liberalizzazione del mercato, sull’altro il grado di liberalizzazione degli assetti proprietari. La liberalizzazione del mercato va da un minimo, che consiste nel mantenimento dell’attuale monopolio (il cui effetto pratico può essere fatto valere anche oltre la data del 1998 con opportune, si fa per dire, azioni ritardatrici); a un massimo, che corrisponde alla eliminazione di ogni regime di concessione addirittura in anticipo rispetto alla data imposta dalla Ue. La liberalizzazione degli assetti proprietari va dal vincolo massimo, (estremo frazionamento delle quote, poniamo massimo 1 per cento), a uno intermedio che privilegi investitori italiani, alla massima liberalizzazione, che non ponga vincoli né di quote azionarie né di nazionalità.
A titolo di esempio, si illustrano delle soluzioni stilizzate, alcune volutamente estreme. Ciò che si intende dimostrare è il diverso ruolo che hanno le istituzioni finanziarie in ciascuno dei casi.
1. Soluzione liberismo estremo: si aboliscono le concessioni telefoniche. Mercato libero, prezzi liberi. L’unicità della rete primaria già non esiste: in Italia il monopolio ha in dotto una reazione di un grandissimo numero di reti private. L’obbligo del servizio universale viene ignorato come unpretesto (non senza buone ragioni), pensando che a esso possa provveedere la concorrenza tra i gestori di reti, al massimo con rimborsi nei casi estremi. In questo caso il problema di chi acquisisce il controllo diventa meno rilevante: chi sa che spende per essere in concorrenza con rivali agguerritissimi, e che, a eventuali posizioni dominanti, penserà Antitrust. Le banche servono solo da intermediari.
2. Soluzione alleanza industriale. Mentre nel mondo le telecomunicazioni sono oggetto di una frenetica attività di acquisizioni e di alleanze per posizionarsi nel mercato globale, la Stet (e l’Italia) si è chiusa in un (poco) splendido isolamento. Si assume l’obbiettivo di usare la privatizzazione per un’alleanza strategica con un partner estero che assume un ruolo non marginale al campione nazionale, nonostante la sua lunga permanenza in panchina. Si impongono alla libertà di concorrenza, si invitano aziende straniere nel nocciolo duro: la leadership gestionale è divisa fra management italiano e il partner estero. In tal caso le banche italiane devono assumere un partecipazione per esercitare un potere di supervisione, e per controbilanciare lo squilibrio nei rapporti di forze tecnologiche e di mercato.
3. Soluzione far cassa. Per massimizzare i ricavi l’ ideale è la minima liberalizzazione dei mercati, nessun vincolo ala partecipazione industriale. Si indice un’asta tra i grandi operatori stranieri del settore, mettendo sul mercato e il monopolio, dunque la garanzia degli utili futuri, e una posizione strategica in Europa da acquisire. In tal caso le banche fungono solo da intermediari.
4. Soluzione nazionalista aperta. Il compito di perseguire la strategia industriale viene affidato a imprese italiane: si offre loro la possibilità di dimostrare la loro capacità, anche giocando la carta delle alleanze strategiche. Moderata liberalizzazione dei mercati, vincolo di nazionalità sugli assetti proprietari. Si pone il problema: quali imprese? operanti in quali settori? Deciderlo non è ruolo del governo, non delle banche: il loro compito sarà quello di esercitare la supervisione nel mantenimento di un equilibrio comunque delicato. Le banche devono essere selezionate quindi in considerazione sia le loro capacità tecniche, sia la loro indipendenza dagli operatori industriali il cui operato devono controllare. Inoltre questo loro ruolo può dar luogo a conflitti, potendo essere in contrasto con il ruolo di azionista.
5. Soluzione public company italiana. Nessun nocciolo duro, verosimilmente moderata liberalizzazione del mercato. Agli investitori finanziari incombe in questo caso il ruolo di indirizzo strategico e di controllo dell’attività del management.
Si ripete che non ci si proponeva lo scopo di illustrare alcune situazioni possibili, quanto indicare la diversità dei ruoli assegnati agli investitori finanziari per ogni situazione. Ne guadagneremo in chiarezza se si procederà dagli assetti in dustriali alla scelta delle istituzioni finanziarie, anziche obbligarci a indovinare da questa scelta gli assetti a cui si mira: in modi certo meno grezzi di quanto qui si è volutamente osato, ma in modo altrettanto chiaro di quanto si speri sia riuscito a fare.
marzo 16, 1995