Ogni discorso sull’assetto da dare al sistema delle Tlc in Italia deve partire da queste considerazioni di base:
- nel 1998, per effetto del disposto comunitario, cadranno i vincoli alla liberalizzazione del settore;
- di tutti i servizi di pubblica utilità, questo è quello in cui non esistono ostacoli di principio per la realizzazione di un mercato contendibile;
- il disegno deve comprendere anche le nuove tecnologie, soprattutto quelle via cavo.
Prima di entrare nel merito della questione è necessario premettere alcune considerazioni di carattere generale su: obbligo del servizio universale, costi per eventuali duplicazione di impianti, problemi relativi al passaggio a un regime liberalizzato.
Obbligo del servizio universale. Oggi il telefono tradizionale è adeguatamente diffuso su tutto il territorio nazionale, le fasce di utenza escluse sono l’eccezione, e a esse si può, ove si intenda, provvedere con facilitazioni ad hoc (bonus agli utenti, rimborsi agli operatori): in tal modo il costo per fornire a tutti un servizio considerato essenziale diventa noto e misurabile, non viene affondato nel totale dei costi dell’esercente. Questo è anche ciò che prevede lo schema programmatico sulle Tlc del ministero delle Poste di Bonn (del 27/3/95) in cui l’obbligo del servizio universale viene previsto solo per l’operatore in posizione dominante, dando preferenza alla fornitura in condizioni di mercato senza obblighi di specifiche prestazioni, e finanziandolo nell’ambito normale del mercato.
Per i nuovi servizi via cavo, prioritario è determinare le condizioni perché il servizio parta: quando esso sarà ragionevolmente diffuso, e soprattutto quando si saranno sviluppati i programmi che offrano altro che non sia la Tv commerciale (che tutti ricevono) e il telefono (che quasi tutti hanno), allora si potrà agire a favore delle fasce di popolazione che, per censo o per localizzazione, rischiassero di essere private di un mezzo a quel momento diventato essenziale allo sviluppo delle loro individuali potenzialità. E poi: il tendere all’eguaglianza di opportunità non significa che un paesino debba essere uguale a una città: nessuno penserebbe di mettere un’università in ogni comune! Al passaggio dal regime di monopolio al regime di mercato corrisponde il passaggio da un sistema basato sugli obblighi imposti al monopolista a un sistema basato sui diritti dell’utente.
Spreco di risorse per eventuali duplicazioni di investimenti. Il problema non si pone per la telefonia a lunga distanza: esiste un gran numero di reti siffatte (Enel, Fs, Eni, banche, grandi aziende) e la stessa rete Telecom può convogliare anche traffico di altri operatori. In ogni caso stendere altre dorsali non deturpa l’ambiente, può esser fatto rapidamente, a costi accettabili e, grazie alla tecnologia, in rapida diminuzione.
Problemi realtivi al passaggio da una situazione di monopolio a una di mercato contendibile. Al momento della liberalizzazione, sul mercato esiste solo la posizione dominante dell’ex-monopolista. Questa asimmetria richiede che, per avere concorrenza, si crei temporaneamente una asimmetria a favore del nuovo entrante. L’ex monopolista gode di economie di scala, di esperienza accumulata negli anni, di conoscenza approfondita dei profili dei suoi utenti; può ricorrere a politiche di prezzi che scoraggino il nuovo entrante, né questi può essere certo che l’Antitrust e la magistratura ordinaria intervengano rapidamente. In condizioni di apparente parità, il nuovo entrante ha rischi molto maggiori e benefici attesi uguali a quello dell’exmonopolista: quindi o non investirà o adotterà strategie collusive.
Fatte queste premesse di natura generale, si nota che esistono profonde differenze strutturali tra telefonia urbana e telefonia a lunga distanza:
- costo della duplicazione delle infrastruttura;
- effetti della tecnologia per ridurre costi di impianti e di esercizio;
- sistemi tariffari;
- dinamica quantitativa e qualitativa del mercato.
Per questo, quando gli Usa vollero introdurre concorrenza, diedero all’At&t la lunga distanza, alle Bocs il traffico urbano. Il primo in regime di concorrenza ( Mei e Sprint), il secondo in regime di monopolio locale.
Le infrastrutture, presenti a livello nazionale, non esistono invece a livello locale. Non avrebbe senso ripartire le utenze urbane tra più operatori, né duplicare le vechie reti a doppino telefonico. I nuovi impianti si giustificano se saranno qualitativamente superiori ai vecchi, se offriranno la larghezza di banda e l’interattività necessaria per i nuovi servizi: solo le reti via cavo con largo uso di fibra ottica rispondono a questi requisiti.
Quanto precede consente già da indicare una prima agenda delle cose da fare subito, se si vuole avere in futuro concorrenza nel settore telefonico. Alcune in negativo, per evitare di dover domani operare su una situazione irrimediabilmente compromessa:
- mantenere indipendenti dall’attuale concessionario unico le reti lunga distanza esistenti;
- consentire che nascano in ambito urbano operatori cavo che stendano rapidamente gli impianti;
- impedire che questo spazio sia occupato dall’attuale monopolista telefonico, e questo fintantoché i nuovi operatori non si saranno stabilmente affermati.
Altre in positivo: il 1998 è una data estremamente vicina se rapportata ai tempi di implementazione dei dispositivi di legge e di costruzione delle infrastrutture; è estremamente lontana per chi aspetta servizi migliori a minor prezzo:
- nel 1998 ha da essere la data in cui la concorrenza è già in atto, non quella in cui si cominciano a gettare le basi per averla;
- la liberalizzazione dei servizi via cavo deve iniziare subito. Prima che si siano fatti i bandi di gara, assegnate le concessioni, disposte le infrastrutture, saremo comunque a ridosso del 1998: il traffico eventualmente sottratto a Telecom prima di tale data sarebbe economicamente del tutto trascurabile, poco più di una sperimentazione.
È solo implementando da subito decisioni indispensabili per rendere possibile l’esistenza di un mercato, che si assicura uno spazio per disegnare una politica delle Tlc in Italia. Questa non può essere lasciata alle iniziative della dirigenza Telecom, che persegue, logicamente e coerentemente, obbiettivi aziendali.
Tra le tante questioni aperte eccone alcune: quanti concorrenti si vogliono avere? Nel traffico interurbano, tre sembra un numero adeguato: due pare poco, forse quattro potrebbe essere eccessivo. E ancora: quanti e quali hanno da essere i concessionari delle reti locali? Può essere il mercato a decidere? Quali limiti porre fin dall’inizio limiti a eccessive concentrazioni? Come attivare la concorrenza, dato che, per ovvi motivi, in ogni area la concessione non può che essere unica?
Per quanto riguarda l’assetto normativo, due temi paiono particolarmente rilevanti: le garanzie di pluralismo; l’eventuale creazione di una rete nazionale e il tema, a esso connesso, della separazione tra carrier e fornitore di contenuti. Le reti-cavo tecnicamente possono, ed economicamente devono trasmettere sia segnali telefonici che segnali televisivi. Questo dischiude una tematica delicata in sé, delicatissima in Italia, dove è in atto una duplice anomalia: la prima, perché allo sviluppo fino ai suoi limiti estremi la Tv generali-sta via etere, ha corrisposto il blocco di altri tipi di televisione; la seconda, perché un proprietario di Tv è anche uomo di governo e leader di un partito politico. Ciò porta a enfatizzare il problema dei contenuti, mentre le Tlc sono in primo luogo un servizio di pubblica utilità, un settore industriale cui applicare le normali regole a protezione del mercato e della concorrenza. La trasmissione di programmi a prevalente contenuto informativo è solo un caso particolare. È logico che le regole che tutelano il pluralismo e la correttezza dell’informazione siano particolarmente severe e restrittive: ma estendere la loro maggiore severità a tutto il settore. rischia di limitarne indebitamente lo sviluppo. Ai mercati in formazione conviene imporre il minimo di limitazioni. necessarie invece per i mercati più maturi. Per questo sembra ragionevole che l’autorità indipendente la cui istituzione è in corso di discussione in Parlamento venga modellata in modo non differente dalle altre consimili, regolando con appositi e distinti strumenti le materie che attengono al garante dell’editoria.
Le ‘regole della carestia’ (valide quando pochi sono i canali che lo spettro delle frequenze via etere rende disponibili) non devono essere uguali alle ‘regole dell’abbondanza’ (le centinaia di canali del cavo). Un uso monopolistico è possibile nel mondo delle risorse limitate, praticamente impossibile quando i canali da occupare sono superiori alla capacità di saturarli. È la necessità stessa di trarre il massimo possibile dall’investimento fatto nel cavo, a lavorare in favore del pluralismo.
Da quanto sopra detto, dovrebbero già essere chiare le ragioni per cui è assolutamente da scartare la soluzione di dare in concessione da un unico operatore la costruzione e la gestione dell’infrastruttura in cavo del territorio nazionale.
1. Per creare un mercato concorrenziale. Si è visto che solo le reti-cavo possono diventare i concorrenti in ambito locale all’attuale monopolista telefonico. Se questi diventasse il proprietario anche delle reti-cavo locali, dovrebbe concederne l’uso ai propri concorrenti, con cui competerebbe nei servizi forniti sugli impianti tradizionali. Una situazione in cui Telecom possiede le due reti, quella in doppino e quella in fibra, e sulla prima fornisce anche il servizio voce, sembra essere l’esatto contrario di un mercato concorrenziale.
2. Per evitare costi e rischi accollati alla comunità. La decisione di dare al monopolista telefonico anche la concessione di cablare il paese, equivale alla decisione di compiere un investimento gigantesco, a spese o del contribuente o dell’utente. Un investimento che presenta numerosi rischi: sulle tecnologie vincenti, sulla concorrenza con il satellite, sulla disponibilità di nuovi servizi (home banking, lavoro a domicilio, tele-istruzione, tele-medicina), e sul loro gradimento da parte del pubblico. Il mercato, non una decisione centrale, selezionerà le scelte migliori. Se c’è una cosa che i governi non sanno fare, è cavalcare il rapido mutamento tecnologico. Invece l’esempio inglese dimostra che esistono nel mondo sufficienti capitali disposti a correre in proprio i rischi d’impresa, mentre la concorrenza si incarica di far emergere le soluzioni più valide.
3. Per il successo dell’iniziativa. L’esperienza dimostra che l’ambiente ideale per le reti-cavo è quello metropolitano: il senso di appartenenza, Io strettissimo rapporto tra operatori cavo, attività economiche locali, cittadini, amministrazione, sono potenti acceleratori dello sviluppo. Il successo di una rete-cavo dipende in maniera determinante dalle energie che l’investitore profonde nel marketing, nella conoscenza dei propri clienti, dei loro gusti. Tutto ciò si perderebbe, se si separasse artificialmente l’unità del business, tra carrier e fornitore (non già realizzatore) di contenuti: chi mai investirebbe per realizzare un’infrastruttura, quando il successo dipende da iniziative imprenditoriali di altri? Invece se l’operatore cavo ha investito somme considerevoli nella realizzazione dell’infrastruttura, profonderà tutte le sue energie per lo sviluppo della sua impresa.
Offrire ai fornitori di contenuti la possibilità di variabilizzare i propri costi, avrebbe come conseguenza solo una minore concentrazione e determinazione nello sviluppo del’ Iniziativa. L’entrata nel secolo dell’informazione e della conoscenza non sarà una passeggiata per nessuno.
aprile 29, 1995