La nuova legge americana, sulle telecomunicazioni, che elimina i vincoli che finora segtmentavano il mercato – tra telefonia a lunga distanza e telefonia urbana, tra cavo e telefono, tra produttori e distributori di programmi – è stata accolta con perplessità, o con esplicita preoccupazione, da alcuni nostri autorevoli commentatori.
«La tecnologia ha sconfitto la politica», scrive Vittorio Zucconi (La Stampa del 3 febbraio). Mentre Furio Colombo (Repubblica del 3 e del 4 febbraio) parla di sconfitta del consumatore e di vittoria del «capitalismo dal volto alieno». Sono giustificati, questi severi giudizi? Per rispondere, conviene esaminare il problema da tre punti di vista: della regolazione, della concreta situazione americana, di quella che perdura in Italia. Lo si farà accompagnando ciascun punto da una citazione del massimo, forse, dei teorici del mercato e della concorrenza.
«La soluzione del problema economico della società – scrive Von. Hayek (Il significato della concorrenza, 1946) – è sempre un viaggio esplorativo verso l’ignoto, perché tutti i problemi economici sorgono a causa di cambiamenti imprevisti che richiedono qualche adattamento. Solo ciò che non è stato previsto richiede nuove decisioni». Il fatto nuovo è la rivoluzione digitale, che ha posto il regolatore di fronte al suo classico dilemma: se intervenire con regole limitatrici della libertà di impresa proprio per garantire che tale libertà esista per tutti. La concorrenza perfetta è un concetto limite, che implica in effetti l’assenza di ogni attività concorrenziale. Il consumatore si avvantaggia se la concorrenza è tra imprese forti, capaci di investire, di scoprire le possibilità inutilizzate offerte dal mutare di mercato e tecnologia. Perché intervenire sul mercato separando, quando dall’integrazione possono nascere imprese più forti? Perché un’autorità dovrebbe sapere ex ante e meglio quello che solo il mercato può scoprire?
Secondo: non si può dimenticare che gli Usa, in nome della concorrenza, hanno avuto il co
raggio di smantellare l’At&t, l’azienda telefonica forse più efficiente del mondo; che ciò è stato possibile per l’azione della magistratura nonostante l’autorità di controllo fosse stata «catturata» dal monopolista; che da ciò sono nate sette imprese telefoniche regionali e tre nella telefonia a lunga distanza. In Usa esistono oltre 1500 giornali; una quarta rete televisiva, la Fox, è riuscita a inserirsi in un mercato da decenni diviso fra le tre reti tradizionali; alla tv via etere si contrappongono numerose tv via cavo. In Usa, dalla liberalizzazione di una rete militare è nato Internet. Difficile sostenere che quel Paese non abbia saputo attivare la concorrenza, ingiustificato supporre che l’abbattere le barriere che artificialmente separavano i diversi campi di attività significhi un cambiamento di politica, preluda ad una resa delle esigenze di pluralismo alla voracità del big business. «Le effettive e inevitabili imperfezioni della concorrenza non costituiscono certamente un argomento contro la concorrenza, così come uno stato di salute imperfetto non costituisce un argomento contro la salute in quanto tale».
Dagli Usa volgiamo ora lo sguardo alla situazione italiana. Assai forte è l’impressione che i commenti negativi alle riforme americane siano dovuti al timore, in realtà non infondato, di un possibile effetto imitativo che trasferisca tout court il modello Usa alla realtà italiana. Sarebbe questo un macroscopico errore: semmai dobbiamo porci il problema di adattare alla nostra realtà interventi operati in Usa in una fase precedente. In Italia troviamo infatti ancora: nella televisione, l’invadenza del pubblico, che neppure la volontà popolare espressa in un referendum riesce a scalfire, accanto ad una presenza privata inquinata dal conflitto di interesse; nella telefonia, un onnipotente monopolio pubblico cui si consente estendersi anche al cavo, per giunta a spese dell’utente; nel sistema bancario pubblico, una concentrazione di interventi in società televisive ed editoriali, sia direttamente sia tramite la raccolta pubblicitaria. Ma soprattutto c’è da chiedersi se l’estendere alla nostra realtà le preoccupazioni che si manifestano per la deregolamentazione americana paradossalmente non possa portare vantaggi proprio al monopolista. Per batterne il potere, da noi sarebbe invece opportuno favorire i nuovi entranti consentendo loro quelle convergenze, tra televisione, produzione di contenuti, telefonia e cavo che nella realtà americana sono viste con sospetto. «E’ sorprendente», ed è l’ultima citazione, «quante volte l’entusiasmo per la concorrenza perfetta si trovi a convivere con il sostegno dei monopoli nella pratica». Né Zucconi né Colombo possono certo essere sospettati di sostegno ai monopoli: ma se hanno delle riserve sulla situazione in Usa, che parole e che proposte trovano per quella di casa nostra?
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febbraio 7, 1996