Tlc, è la concorrenza a garantire il pluralismo

novembre 2, 1996


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Anche se l’impasse sembra supe­rata, la battuta d’arresto che ha subito il progetto di legge Mac­canico sulle comunicazioni dovrebbe indurre a una riflessione sull’impianto concettuale della proposta. Il proble­ma che si propone è questo: il mercato delle comunicazioni è diverso dagli al­tri mercati? Perché, e in che modo, deve essere regolato in modo diverso? Quali sono i valori che una legislazio­ne sulle comunicazioni deve promuo­vere? Se ne è parlato recentemente in un convegno della fondazione Piero Calamandrei, con relazioni di Aurelio Gentili e di Enrico Zanelli.

La legislazione antimonopolistica si basa sulla categoria del mercato: con­cretamente, del mercato di riferimento; il suo valore è la concorrenza. La legisla­zione sui media invece, in particolare la legge 223/90, la legge Mammì, introduce. un concetto ulteriore, quel­lo di pluralismo. Si tratta di un concetto giuridica­mente ostico. Non esplici­tamente riconosciuto dalla Costituzione, desunto in termini generali dall’articolo 2, che of­fre un riferimento “alto” ma abbastan­za vago, vien fatto discendere dall’ar­ticolo 21 — che assicura il diritto di libera manifestazione del pensiero ­e dalle interpretazioni che ne ha dato la Corte Costituzionale. Il pluralismo soggettivo, quello per cui tutte le opi­nioni hanno diritto ad avere espressio­ne, può solo condurre o a un’astratta “affirmative action”, o all’imposizione di speciali vincoli alla concessionaria pubblica, in evidente contraddizione con la sua posizione concorrenziale. Solo a una concessionaria pubblica fi­nanziata dal solo canone può essere affidata la difesa del pluralismo. Dun­que, proprio le ragioni di pluralismo impongono di separare le attività fi­nanziate dalla pubblicità da quelle fi­nanziate dal canone: nella speranza, che nessuna legge può garantire, che pluralismo non significhi la lottizza­zione a cui assistiamo.

Fuori di questo c’è solo il pluralismo oggettivo: la pluralità degli operatori, che fa sperare che tutti gli interessi siano rappresentati. «La difesa del pluralismo — scrive Aurelio Gentili — resta agganciata, a esclusione di ogni intervento sui contenuti, alla sola normazione sulla concorrenza: è 14 concorrenza che assorbe il plurali­smo». E lo strumento principe diventa la liberalizzazione. «Il limite della legi­slazione ordinaria e quindi la ragione di un intervento ad hoc, non è in una situazione strutturale permanente che possa giustificare il ridisegno della mappa del potere, bensì una situazio­ne funzionale contingente, che giustifi­ca solo interventi temporanei per il trapasso dagli attuali monopoli e oli­gopoli».

Se così stanno le cose, si possono trarre due importanti conseguenze. La prima riguarda le autorità di regola­zione. Se il valore da difendere è “solo” quello della concorrenza, l’autorità preposta è l’Antitrust; essendo questo un valore pubblico, è coerente che il suo vertice sia nominato da presidenti di Camera e Senato; all’autorità rego­latrice sono invece affidate funzioni prevalentemente tecnico-amministrati­ve: dunque deve essere di nomina del­l’esecutivo. La Fcc americana ha solo compiti di regolamentazione tecnica e tariffaria, mentre per l’Antitrust la competenza è del giudice ordinario. Il caso limite della Nuova Zelanda, in cui l’intera materia è lasciata all’Anti­trust, potrebbe indicare soluzioni che Jalgano ad ammorbidire le opposizio­ni pregiudiziali di Rifondazione.

La seconda conseguenza è di chiarì-re la ragione per voler sottoporre a un’unica autorità il mondo delle tele­comunicazioni e quello della comuni­cazione di massa. Ragione che non si fonda sulla convergenza tecnologica tra i due settori, quanto sul riconosci­mento che i due diversi valori coinvol­ti, rispettivamente libertà di iniziativa economica e pluralismo, sono in realtà difesi dallo stesso strumento, quello della concorrenza.

Resta da chiedersi se le forze di mercato, quelle che si alimentano della convergenza tecnologica e della glo­balizzazione, siano atte a produrre adeguata concorrenza, sempre che il regolatore si limiti a dettare le regole del gioco, e non pretenda di attribuire le carte ai giocatori, facendo del sog­getto una creazione del regolatore. A livello di tecnologia e di infrastrutture è prevedibile che si svilupperà adegua­ta concorrenza tra una pluralità di operatori. A livello di servizi invece gli operatori che tendono a ingrandirsi, espandendosi in tutti i settori. Dettare norme che ostacolino questa espansio­ne bloccando gli incroci garantisce più concorrenza o è un espediente prote­zionistico a difesa degli attuali mono­poli e oligopoli? Alla con­correnza, dunque al plura­lismo, assai più che non la limitazione delle reti gene­raliste via etere, o il divie­to di incrocio, gioverà l’apertura di nuovi media, il cavo e il satellite. La de­cisione di bloccare Berlu­sconi in Telepiù e di la­sciargli, sia pure “tempora­neamente”, le reti via ete­re, appare essere stata, alla luce di queste considerazioni, contraddittoria con gli obbiettivi di pluralismo in no­me dei quali era stata presa: dimo­strando anche in questo caso che la sola politica industriale oggi conve­niente, forse la sola possibile, è quella della concorrenza.

Il successo iniziale dell’entrata di’ Berlusconi in politica, certamente faci­litato dall’essere proprietario di televi­sioni, ha da un lato aperto il problema del conflitto di interesse, dall’altro ha accentuato in una parte della sinistra un atteggiamento di sospetto verso i mezzi di comunicazione di massa, che neppure la brevità della parentesi go­vernativa di Berlusconi, e la successi­va vittoria dell’Ulivo sono valse a fu­gare. Il primo problema resta, al mo­mento, insoluto. Quanto al secondo, sarebbe grave se questi timori condu­cessero a disegnare un’autorità di re­golazione pesantemente politica e intrusiva, in, modo sostanzialmente pre­giudizievole per la libertà di impresa proprio in un settore industriale su cui concordemente si concentrano tante aspettative.

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