Anche se l’impasse sembra superata, la battuta d’arresto che ha subito il progetto di legge Maccanico sulle comunicazioni dovrebbe indurre a una riflessione sull’impianto concettuale della proposta. Il problema che si propone è questo: il mercato delle comunicazioni è diverso dagli altri mercati? Perché, e in che modo, deve essere regolato in modo diverso? Quali sono i valori che una legislazione sulle comunicazioni deve promuovere? Se ne è parlato recentemente in un convegno della fondazione Piero Calamandrei, con relazioni di Aurelio Gentili e di Enrico Zanelli.
La legislazione antimonopolistica si basa sulla categoria del mercato: concretamente, del mercato di riferimento; il suo valore è la concorrenza. La legislazione sui media invece, in particolare la legge 223/90, la legge Mammì, introduce. un concetto ulteriore, quello di pluralismo. Si tratta di un concetto giuridicamente ostico. Non esplicitamente riconosciuto dalla Costituzione, desunto in termini generali dall’articolo 2, che offre un riferimento “alto” ma abbastanza vago, vien fatto discendere dall’articolo 21 — che assicura il diritto di libera manifestazione del pensiero e dalle interpretazioni che ne ha dato la Corte Costituzionale. Il pluralismo soggettivo, quello per cui tutte le opinioni hanno diritto ad avere espressione, può solo condurre o a un’astratta “affirmative action”, o all’imposizione di speciali vincoli alla concessionaria pubblica, in evidente contraddizione con la sua posizione concorrenziale. Solo a una concessionaria pubblica finanziata dal solo canone può essere affidata la difesa del pluralismo. Dunque, proprio le ragioni di pluralismo impongono di separare le attività finanziate dalla pubblicità da quelle finanziate dal canone: nella speranza, che nessuna legge può garantire, che pluralismo non significhi la lottizzazione a cui assistiamo.
Fuori di questo c’è solo il pluralismo oggettivo: la pluralità degli operatori, che fa sperare che tutti gli interessi siano rappresentati. «La difesa del pluralismo — scrive Aurelio Gentili — resta agganciata, a esclusione di ogni intervento sui contenuti, alla sola normazione sulla concorrenza: è 14 concorrenza che assorbe il pluralismo». E lo strumento principe diventa la liberalizzazione. «Il limite della legislazione ordinaria e quindi la ragione di un intervento ad hoc, non è in una situazione strutturale permanente che possa giustificare il ridisegno della mappa del potere, bensì una situazione funzionale contingente, che giustifica solo interventi temporanei per il trapasso dagli attuali monopoli e oligopoli».
Se così stanno le cose, si possono trarre due importanti conseguenze. La prima riguarda le autorità di regolazione. Se il valore da difendere è “solo” quello della concorrenza, l’autorità preposta è l’Antitrust; essendo questo un valore pubblico, è coerente che il suo vertice sia nominato da presidenti di Camera e Senato; all’autorità regolatrice sono invece affidate funzioni prevalentemente tecnico-amministrative: dunque deve essere di nomina dell’esecutivo. La Fcc americana ha solo compiti di regolamentazione tecnica e tariffaria, mentre per l’Antitrust la competenza è del giudice ordinario. Il caso limite della Nuova Zelanda, in cui l’intera materia è lasciata all’Antitrust, potrebbe indicare soluzioni che Jalgano ad ammorbidire le opposizioni pregiudiziali di Rifondazione.
La seconda conseguenza è di chiarì-re la ragione per voler sottoporre a un’unica autorità il mondo delle telecomunicazioni e quello della comunicazione di massa. Ragione che non si fonda sulla convergenza tecnologica tra i due settori, quanto sul riconoscimento che i due diversi valori coinvolti, rispettivamente libertà di iniziativa economica e pluralismo, sono in realtà difesi dallo stesso strumento, quello della concorrenza.
Resta da chiedersi se le forze di mercato, quelle che si alimentano della convergenza tecnologica e della globalizzazione, siano atte a produrre adeguata concorrenza, sempre che il regolatore si limiti a dettare le regole del gioco, e non pretenda di attribuire le carte ai giocatori, facendo del soggetto una creazione del regolatore. A livello di tecnologia e di infrastrutture è prevedibile che si svilupperà adeguata concorrenza tra una pluralità di operatori. A livello di servizi invece gli operatori che tendono a ingrandirsi, espandendosi in tutti i settori. Dettare norme che ostacolino questa espansione bloccando gli incroci garantisce più concorrenza o è un espediente protezionistico a difesa degli attuali monopoli e oligopoli? Alla concorrenza, dunque al pluralismo, assai più che non la limitazione delle reti generaliste via etere, o il divieto di incrocio, gioverà l’apertura di nuovi media, il cavo e il satellite. La decisione di bloccare Berlusconi in Telepiù e di lasciargli, sia pure “temporaneamente”, le reti via etere, appare essere stata, alla luce di queste considerazioni, contraddittoria con gli obbiettivi di pluralismo in nome dei quali era stata presa: dimostrando anche in questo caso che la sola politica industriale oggi conveniente, forse la sola possibile, è quella della concorrenza.
Il successo iniziale dell’entrata di’ Berlusconi in politica, certamente facilitato dall’essere proprietario di televisioni, ha da un lato aperto il problema del conflitto di interesse, dall’altro ha accentuato in una parte della sinistra un atteggiamento di sospetto verso i mezzi di comunicazione di massa, che neppure la brevità della parentesi governativa di Berlusconi, e la successiva vittoria dell’Ulivo sono valse a fugare. Il primo problema resta, al momento, insoluto. Quanto al secondo, sarebbe grave se questi timori conducessero a disegnare un’autorità di regolazione pesantemente politica e intrusiva, in, modo sostanzialmente pregiudizievole per la libertà di impresa proprio in un settore industriale su cui concordemente si concentrano tante aspettative.
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novembre 2, 1996