È naturale che, come scrive Franco Bassanini (Il Sole 24 Ore, 21 Dicembre 2018), “molte disposizioni del nuovo Codice Europeo delle Comunicazioni Elettroniche tendano a favorire investimenti nelle infrastrutture di tlc di ultima generazione”. Però esso preserva il principio della neutralità tecnologica, le autorità nazionali non possono discriminare tra tecnologie. Per il consumatore quello che conta, più del punto di arrivo, è il transitorio: quanto tempo? quanti soldi? chi paga? Dipende da politiche fiscali, di competenza degli stati sovrani, non della Commissione. I nostri vicini europei intendono effettuare il passaggio alla rete tutta ottica con gradualità (2025 – 2030): per Deutsche Telekom la copertura universale FTTH a breve nel Paese sarebbe impossibile, costerebbe €70 mld; il Presidente Macron ha rivisto il piano FTTH del precedente governo aprendo a tutte le tecnologie d’accesso. Esclusa la Spagna (dove i cabinet non esistono, i cavi in rame sono interrati in trincea) l’Italia è l’unico Paese dell’Europa Occidentale ad aver dichiarato di voler realizzare una copertura FTTH «universale»; gli altri per ora prevedono di accelerare i collegamenti a 100 Mbit/s e la predisposizione di connessioni FTTH per utenti affari e pubblica amministrazione e per le stazioni radio del futuro sistema 5G. I molto citati casi di passaggio diretto dal rame a FTTH hanno tutti motivazioni specifiche: in Giappone le linee sono aeree e le interferenze elettromagnetiche non consentono altro mezzo; in Corea FTTH è usato nei condomini delle tre più grandi città (quasi l’80% della popolazione); altrove si usa il rame potenziato su rete esistente rinunciando alla rete tutta ottica subito, quindici anni fa obiettivo del governo.
I benefici in termini di PIL attesi da digitalizzazione e banda ultra larga sono straordinari, e Bassanini cita autorevoli previsioni. Ma un conto è la larghezza di banda disponibile, altro è usarla. Un paio di mesi fa un supplemento del Financial Times riportava un’infografica da cui risultava che la parte d’Europa (sic) con la maggiore connettività è il triangolo della Sicilia sud-orientale: è lecito dubitare che sia anche la più digitalizzata.
Ritorniamo a noi e alle scelte che la direttiva europea ci sollecita a prendere per la banda ultra larga. Come è ben noto, in questo prevedibilmente lungo transitorio si confrontano due sistemi, FTTH (fiber to the home) e FTTC (fiber to the cabinet). Per realizzare la prima il Governo Renzi ha creato Open Fiber, la joint venture tra Enel e CDP. Meno nota, ma finora più diffusa, Flash Fiber, joint venture tra TIM e Fastweb, in meno di 2 anni ha allacciato con tecnologia FTTH 1,5 mio, e mira entro il 2020 a 3 mio di unità abitative nelle principali 29 città italiane.
Con FTTC, la fibra è portata fino al “cabinet” (armadio) da cui partono le coppie in rame (lunghezza mediana 200 m). In VDSL può oggi fornire 300Mbit/s, in virtù della banda allargata e della tecnica “vectoring” che cancella i disturbi fra le coppie nel cavo. Passando al G.Fast si può dare subito 1 Gbit/s a cliente, che dal 2021 diventeranno 10 Gbit/s con una sua nuova versione (MG.Fast). Come ha notato su queste colonne Franco Bernabè, basterebbe autorizzare l’uso del vectoring già presente nei cabinet, ma spento per restrizioni regolamentari vigenti solo in Italia, e il nostro diventerebbe di colpo uno dei Paesi con la maggiore connettività a banda ultra larga d’Europa: immediatamente, senza scavare cunicoli nelle strade ed eseguire lavori di muratura negli edifici, con un costo mediamente un terzo di quello del FTTH. E, come già ho osservato sul Sole 24 Ore, con una larghezza di banda sovente superiore alla tecnologia FTTH che Open Fiber installa oggi in Italia: infatti quella del FTTH va divisa tra tutti gli utenti sul cavo, mentre FTTC collega singolarmente ciascuna abitazione. Gli operatori che hanno pagato a caro prezzo l’assegnazione delle frequenze del 5G e che devono iniziare a monetizzare l’investimento correranno per favorirne l’uso, con hotspot molto più potenti di quelli attuali.
Siamo dunque oggi in una situazione molto favorevole, al di là delle apparenze: concorrenza fra più tecnologie, con due imprese con l’uso della fibra, altre che possono usare reti ibride rame-fibra, e in certe zone persino il wireless punto-punto. È virtuosa la concorrenza tra aziende, una pubblica e diverse private (TIM, Fastweb, operatori cellulari): hanno disponibilità a investire (come hanno fatto per le reti 3G, 4G e ora 5G). In buona parte del Paese il cliente può scegliere. Sono le condizioni ideali per consentire alle aziende di seguire le proprie strategie, senza che lo Stato – tranne che nel caso di Open Fiber – corra il rischio di doverne sostenere i costi. Perché non approfittarne, e favorire la concorrenza anziché osteggiarla?
Nessuno dubita delle virtù della fibra, ma nessuno ha dubbi sul fatto che i piani quinquennali non funzionano, che non esiste una sola soluzione, valida sempre e ovunque, che non è lo Stato ma sono le imprese in concorrenza tra loro sul mercato capaci di selezionare le tecnologie più adatte. Oper Fiber è il prodotto della “insana idea di politica industriale”: ora c’è, giochi le sue carte, senza sotterfugi o “aiutini”. L’importante è solo non imporne il modello a tutto il Paese: “Perseverare diabolicum.”
La crescita passa dalla fibra integrale
di Franco Bassanini – Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2018
Ieri, è entrato in vigore il nuovo Codice europeo delle comunicazioni elettroniche. È una direttiva, quindi dovrà essere recepita dagli Stati nazionali. È auspicabile che il Parlamento italiano lo faccia al più presto. Vediamo perché. Molte disposizioni del nuovo Codice tendono a favorire gli investimenti nelle infrastrutture di tlc di ultima generazione.
Parliamo di tecnologie come Ftth e 5G che sono lo strumento-chiave della trasformazione digitale: e dunque della crescita e della competitività (ma anche della qualità della vita) del prossimo decennio. Secondo Accenture Strategy, la piena digitalizzazione, tra dieci anni, produrrà un aumento del Pil europeo di 4 miliardi di euro al giorno. Ma richiederà prestazioni che solo la fibra integrale (Ftth e 5G) può assicurare. Per i servizi di realtà aumentata e virtuale, per esempio, occorreranno capacità di rete di molti Terabit, velocità di accesso di diversi Gigabit al secondo, latenza di pochi millisecondi, resilienza ed efficienza che le reti miste (fibra-rame) non possono assicurare.
Nel nuovo Codice, lo sviluppo di connettività ad altissima capacità diventa così un primario obiettivo regolamentare (anche se non ancora un diritto universale), che si aggiunge ai preesistenti (concorrenza, mercato unico e tutela degli utenti). Governi e Parlamenti europei potranno dunque introdurre norme e incentivi per la promozione degli investimenti in reti ad altissima capacità. Le Autorità nazionali di regolazione dovranno tenerne conto nei loro interventi.
La questione è cruciale. L’Europa rischia, infatti, di restare indietro. La penetrazione dell’Ftth in Corea è all’81,6%, in Giappone al 69,1%, in Cina al 61,6%, in Usa al 14,5 per cento. La media Ue è del 13,9%, l’Italia è tra gli ultimi al 2,3% (dati: Ftth Council). L’obiettivo per il prossimo decennio è per tutti il 100% o poco sotto. Per raggiungerlo, in Europa occorrerebbero 660 miliardi di euro di investimenti (dati: Bcg per Etno). Al ritmo attuale, servirebbero 25 anni: troppi!
La verità è che, come cent’anni fa quando si costruirono le reti in rame, la rivoluzione tecnologica richiede nuovi grandi investimenti greenfield. Con poche eccezioni (Telefónica), gli incumbent europei non possono farli: con il FttCab (fibra all’armadio) tendono a prolungare al massimo la vita della rete in rame, in un’ottica di breve periodo, anche per rinviare la svalutazione di un asset fondamentale.
In molti Paesi sono entrati in campo così operatori infrastrutturali puri (fiber company e tower company), finanziati da investitori di lungo termine. Ma la competizione è fortemente asimmetrica, anche per le azioni di market preemption degli incumbent.
Per ciò il nuovo Codice prevede un regime regolatorio agevolato per questi operatori non verticalmente integrati e dunque attivi solo sul mercato B2B (wholesale only). Prevede che gli operatori wholesale only non siano soggetti all’intero set di remedies previsto per gli incumbent verticalmente integrati: al contrario di questi ultimi, non saranno obbligati a dare accesso ai dotti né all’orientamento al costo, anche in caso di prezzo regolamentato. Il nuovo codice fissa anche una serie di requisiti per identificare gli operatori wholesale only genuini: la semplice separazione legale della rete dell’incumbent, per esempio, sarà ininfluente se l’incumbent mantiene il controllo sulla società separata.
È evidente l’intento di dare un segnale agli investitori incentivando gli investimenti verso gli operatori infrastrutturali wholesale only, che (a differenza degli incumbent) non hanno interesse a prolungare la vita del rame né a discriminare i service provider (dato che non competono con loro sui mercati residenziali). Garantendo essi un assoluto level playing field fra i service provider, la piena concorrenza fra i Sp produce importanti vantaggi per gli utenti, come è avvenuto a Stoccolma, dove sulla rete in fibra competono oltre 100 operatori/Isp.
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dicembre 27, 2018