“Occorre evitare l’idea, puramente speculativa e cinica, di vendere a pezzi TIM: i servizi, senza la rete, renderebbero TIM sempre più soggetta alle incursioni degli OTT.” Sono rimasto molto sorpreso nel leggere questo appello: io lo condivido pienamente, chi lo firma sono sette illustri professionisti, sette manager che hanno ricoperto ruoli apicali nell’ex- monopolista Telecom – e prima -, con i quali ebbi, proprio su questo giornale, contrasti assai vivaci negli anni della sua privatizzazione – e dopo. Vi vedo la conferma che, nella decisione sull’assetto strutturale della rete a banda ultra larga, sono in gioco principi che vanno oltre lo specifico della materia in questione, e che vanno considerati, perché toccano gli interessi generali del Paese.
Quali interessi? La copertura a banda ultralarga, perché da essa dipende l’aumento delle competenze digitali dei cittadini e della competitività delle nostre imprese. Il sistema Italia, perché susciti volontà di investire in chi già vi opera e attragga l’interesse di chi vorrà farlo in futuro; quindi, in primo luogo rispettando il diritto dei proprietari di disporre dei loro beni, o in caso contrario di esserne indennizzati; e parimenti evitando l’intervento diretto dello Stato in settori dove operano imprese private. Infine l’interesse a mantenere in Italia una delle poche grandi aziende che abbiamo: è infatti evidente che più non lo sarebbe TIM , privata che fosse della propria rete, come dicono i firmatari dell’appello di ieri. Sarebbe ben assurdo se da un lato ci si opponesse alla vendita di Comau, perché segnerebbe un’ulteriore riduzione della presenza FIAT in Italia, e dall’altro si imponessero ope legis spezzatini e nazionalizzazioni, alla fine dei quali in Italia non ci sarebbe più una grande azienda privata di telecomunicazioni. Perdipiù quando l’integrazione verticale di auto e macchine utensili è un’eccezione, mentre quella di telefonia e rete è stata ed ancora largamente è la regola.
Il documento all’esame della Camera indica due ragioni per la “rete in fibra unica e pubblica”. Questa tesi si basa su due equivoci, da cui è necessario preliminarmente sgombrare il campo. Il primo è che con un operatore telefonico verticalmente integrato con la sua rete non sia possibile garantire a tutti gli altri parità di condizioni di accesso. La ventennale esperienza inglese di Openreach sta a dimostrare che, e come, questo può farsi perfettamente con la separazione funzionale, al limite societaria, della rete dell’incumbent senza bisogno di separazione proprietaria; mentre i casi di Australia e Nuova Zelanda sono a dimostrare che fare il contrario va incontro a inconvenienti gravi. Il secondo riguarda gli sprechi che potrebbero derivare da una duplicità di reti. Strana affermazione: la concorrenza non produce sprechi, ma anzi un miglior uso delle risorse. Le “inefficienze derivanti dalla eventuale duplicazione di investimenti” sono conseguenza dell’errore politico che è all’origine di tutto ciò. Di Matteo Renzi che, per guadagnare consenso politico, pensa di intestarsi il tema di recuperare il – presunto e convenientemente gonfiato – ritardo italiano nell’accesso al web, decide che la concorrenza che c’è non basta e si inventa Openfiber. Di Giuseppe Conte che decide che di concorrenza ce n’è troppa e vorrebbe sacrificare un’azienda sana e privata pur di salvaguardare quella pubblica e con qualche problema. A proposito: che ne è delle vantate sinergie con la sostituzione dei contatori, da cui tutto ebbe inizio? Si son perse per strada?
Matteo Renzi, secondo un classico della politica industriale, “scelse il vincitore”, e non una ma due volte: costruì un soggetto artificiale senza le necessarie competenze di settore, scelse la tecnologia, la fibra fin dentro casa (FTTH), sostenendola con una sistematica e artificiosa campagna contro la rete di accesso in rame. Anche il timing di questa scelta fu singolarmente sbagliato, perché nel periodo 2012-2017 TIM aveva compiuto un notevole balzo in avanti nella copertura UBB con tecnologia fibra fino al cabinet (FTTC), e ultimi 100 metri in rame: mentre nel 2016 eravamo, per numero di case “passate”, al 27esimo posto in Europa, nel 2017 eravamo al 15esimo, recuperando 12 posizioni, e collocandoci 8 punti sopra la media europea. Non è vero che col FTTH ci sia davvero un bit-rate superiore: i 2,5 Gbit/s nominali della tecnologia FTTH-GPON decadono velocemente col crescere degli utenti connessi, durante le ore di massimo traffico, con una trentina di connessioni attive, sono analoghi a quelli che si ottiene con la tecnologia VDSL-2, addirittura inferiori a quelli ottenuti con le terminazioni EVDSL, per non parlare col Gfast. Non è neppure vero che la fibra ottica sia la tecnologia “future proof”: quando ci sarà la banda larghissima con tecnologie wireless, la fibra ottica potrebbe risultare difficile da allestire e manutenere; senza contare che anche le tecnologie sul rame progrediscono. Ne è conferma quello che si constata nei paesi europei a noi più vicini: passaggio alla fibra in tempi lunghi, valorizzando nel contempo la rete in rame sfruttandone gli sviluppi che consentono bit-rate superiori ai 100MBit/s.
Ma poi perché aprire il problema? Non per ridurre i prezzi, già tra i più bassi in Europa. Non per gli investimenti, a cui provvede il mercato, e se non basta, i bandi. Solo un doppio pregiudizio: l’unicità della rete, e il servizio reso da un’azienda privata. Non ci sono ragioni in positivo – di concorrenza o di efficienza – per imporre, e ce n’è una – di sistema industriale – per non imporre a TIM decisioni e scelte che sono di pertinenza della proprietà. Mantenere la situazione attuale, con AGCom che monitora la separazione funzionale della rete in TIM, e smettendo di demonizzare il rame, potrebbe perfino essere la soluzione di default: eliminando la concorrenza sul FTTH, dato che ci sono ragioni per ritenere che in tal caso la presenza di due operatori wholesale-only che si suddividono i clienti retail non è sostenibile.
Le altre soluzioni sono: l’aggregazione in Openfiber della totalità della rete TIM (parziale non avrebbe senso); l’aggregazione di entrambe le reti in un veicolo di cui TIM detenga il controllo; oppure l’aggregazione nella rete di TIM, con il che Openfiber, o solo CDP, potrebbe dire che ha valorizzato il suo investimento diventando socio di minoranza di TIM. Essendo chiaro che sono tutte decisioni che dipendono degli azionisti di TIM (tra cui c’è anche CDP). Il Governo può solo usare la moral (e financial) suasion nella direzione che ritiene migliore: rinazionalizzare il settore telecomunicazioni, o mantenere in Italia una grande azienda italiana.
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