«You never let a serious crisis go to waste». Se c’è una crisi recente a cui si applica la famosa frase di Rahm Emanuel è proprio quella che ha coinvolto gran parte del sistema bancario italiano e da cui faticosamente cerchiamo di uscire. Certo, molte sono le cause di questa crisi: cause esterne, la lunga crisi dell’economia italiana dopo il 2008, ritardi e manchevolezze delle autorità di regolazione e controllo, nazionali ed europee. Ma di shock esogeni ne possono sempre arrivare altri, ed è proprio quando si presentano inaspettati che si misura la resilienza del sistema. Lo stesso, in qualche misura, può dirsi degli eventuali errori e ritardi nella sorveglianza: l’esigenza di individuare se e perché si sono verificati ritardi, non riduce in nessun modo quella di capire perché le aziende sorvegliate sono incorse in tali disastri.
L’aspetto della crisi da cui vorrei partire è quella degli Npl (non performig loans, cioè incagli più sofferenze), e non solo perché la loro dimensione (si parla di 200 miliardi di euro) ne fa la manifestazione più visibile della crisi. Ma anche perché rivelano una diffusa incapacità delle banche coinvolte a fare il primo loro mestiere, cioè dare il merito di credito. Se dietro ogni Npl c’è sempre un errore di valutazione, dietro il loro ripetersi c’è “del metodo”. È questo errore sistemico che nega in radice i vantaggi di cui, secondo i loro laudatori, godrebbero le banche popolari “di territorio” a voto capitario: la prossimità banca- creditore, che ridurrebbe il costo dell’informazione e consentirebbe più efficaci interventi. Quanto è venuto alla luce nelle quattro piccole banche regionali e nelle due non piccole banche venete dimostrano che questi vantaggi, se ci sono, sono incomparabilmente inferiori ai disastri che proprio quel sistema è incline a provocare, per sua intrinseca natura. Basta un confronto: in quasi il 90% dei casi, nelle banche “di territorio” i documenti in base a cui viene assegnato il merito di credito sono i bilanci dell’azienda che chiede il prestito; in quasi il 90% dei casi le banche maggiori si basano su elementi di provenienza esterna al richiedente. E sarà sempre più così: i programmi di intelligenza artificiale sono già tra noi: sono all’opera nel mondo delle assicurazioni, degli uffici legali, è di pochi giorni la notizia che un gigantesco fondo ha deciso di adottarli per le sue decisioni di investimento. E poi, l’intelligenza artificiale impara alla svelta. Le piccole cooperative ci saranno ancora a lungo, forse sapranno ritagliarsi un spazio più limitato in cui operare senza far danni, ma una cosa è certa: il loro decantato modello basato sulla conoscenza personale non può essere la base su cui fondare una parte importante dell’erogazione del credito. Il “piccolo mondo antico” è un lusso che non possiamo permetterci.
Che poi la prossimità banca-creditore sia andata a vantaggio di creditori “amici” è certo una patologia del sistema. Che essa si sia verificata in banche con voto capitario, in modi indecenti, e probabilmente penalmente rilevanti è un fatto innegabile. Ma non riconoscere che questo tipo di governance abbia consentito, anzi in alcuni casi incentivato gli abusi, è francamente sorprendente.
Dalla banca che eroga il credito, alla banca che raccoglie il risparmio. Si manca di rispetto a quel poveretto che si è tolto la vita per aver perso tutto, e quei tanti che per la stessa ragione hanno sofferto e soffrono, se non si va all’origine del fenomeno. Certo ci sono coloro a cui sono stati venduti prodotti senza rivelarne i rischi, oppure non coerenti con il loro profilo di rischio: ma questa, che è patologia, discende dalla fisiologia di un rapporto con il cliente tipico della banca di prossimità. Ed è singolare che chi esalta i “valori per la banca e per il territorio”, sicuro della rinascita e della ricostruzione delle banche popolari, non veda che questi sono stati interpretati in dispregio della saggezza popolare, che raccomanda di evitare di “mettere tutte le uova nello stesso paniere”. Se una banca così “amica” nel prestare soldi ai soci illustri che sanno cogliere così bene i vantaggi del voto capitario, fosse stata anche “amica” di quelli meno illustri, gli avrebbe insegnato che la regola numero uno dell’investitore (lo è anche che deposita i suoi risparmi in un conto corrente) è quella di diversificare; e che quella numero due è che c’è sempre un rapporto tra rendimento e rischio, per cui se quello è elevato, così dev’essere anche questo. Benedetto sia quindi il bail-in: ben venga la Brrd, le misure proposte da Bruxelles e approvate dai nostri politici e regolatori, se è valsa a realizzare quello che nessuno è stato capace di fare con tanta efficacia, diffondere questo grado minimo di cultura finanziaria. E già che ci siamo, non si vede per quale motivo ai risparmiatori “del territorio” non debba essere fatto sapere che esistono, e diverranno sempre più diffuse, altre forme di risparmio gestito, e che le banche, come non sono l’unica fonte di finanziamenti, così non sono l’unico luogo in cui depositare i propri risparmi.
Ma alla base di tutto, per evitare che “a serious crisis go to waste” bisogna non negare che essa sia avvenuta e non dimenticare i mezzi a cui si è dovuto far ricorso per risolverla. «Poter adeguare il capitale in modo cospicuo e rapido è oggi per una banca prerequisito fondamentale per la sua sopravvivenza. Può essere necessario farlo accedendo tempestivamente al mercato dei capitali, nel qual caso non bisogna avere vincoli impropri. Per le maggiori popolari italiane la forma societaria cooperativa è un handicap che va rimosso al più presto»: quanto dichiarato in Parlamento dal direttore generale di Banca d’Italia non lascia spazi ad equivoci. Non altrettanto può dirsi invece della proposta a cui dà voce Marco Vitale, mantenere la forma con voto capitario per le due banche popolari venete, partecipate di una holding finanziaria, con la forma di società per azioni. In sostanza: mantenere inalterate le strutture che possono produrre i guai che si son visti, e inserirle direttamente dentro la struttura che dovrà aiutare a por rimedio alle loro conseguenze.
Proposta oltretutto pervenuta a tempo scaduto, dato che con la richiesta di ricapitalizzazione precauzionale, la palla è passata alla Bce e a Bruxelles. E mi sentirei di escludere che la proposta sia in linea con le idee dei regolatori.
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Questo articolo è stato sollecitato dal giornale come risposta al testo di Marco Vitale, e pubblicato accanto a quello nella stessa pagina:
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