Troppo impegnati a inseguire Tsipras, i leader europei non si lascino sfuggire Londra mercatista, liberale e filoamericana
Non è ancora successo, ma so come andrà a finire: il solito papocchio, la Grecia resta nell’euro. Non è ancora successo, ma temo come andrà a finire: nessun compromesso, l’Inghilterra uscirà dell’Unione europea. I due fatti non sono uno conseguenza dell’altro, ma sono conseguenza di un terzo a monte di entrambi: una gestione politica dell’Europa che non esita a perdere la faccia per far restare la Grecia, e che non esita a perdere l’anima anche a rischio che ci lasci l’Inghilterra. Lloyd Blankfein ha detto che l’errore era stato accettare l’entrata della Grecia: impedendone l’uscita, si raddoppia. Allora Atene aveva falsificato i conti consuntivi, adesso falsifica quelli preventivi. Impressiona la manifestazione di debolezza: che cosa si teme? Se è per le drammatiche conseguenze per la Grecia, l’Europa – rectius la Banca centrale europea – ha risorse sufficienti per tenere a galla un paese che ne è qualche punto percentuale. Se è per le conseguenze geopolitiche per l’Europa, già ci è già stato preannunciato il ricatto a cui oggi, cedendo, ci consegniamo. Se le conseguenze temute sono poi quelle per il resto dei paesi dell’euro, è impressionante la manifestazione di debolezza che implica: i conti pubblici italiani, spagnoli, eccetera, hanno dunque la solidità delle promesse greche? Non volendo riconoscere che la rigidità rende i sistemi fragili, si pensa di rimediare alla fragilità del sistema irrigidendolo: guai se uno esce dell’euro, avanti a testa bassa, fiscal union, political union. Una situazione di insolvenza è stata trattata come crisi di liquidità, i finanziamenti sono stati spostati dalle banche agli organismi istituzionali, cioè dal privato al pubblico, eliminando la possibilità che l’aumento dei tassi segnali il rischio. Un problema economico è stato reso politico.
La permanenza dell’Inghilterra nell’Unione non dipende da noi: ma dipenderà da noi levare armi al Brexit. Non pare che vi ci dedichiamo adeguata disponibilità. Un’Europa senza Inghilterra è impensabile, il senso stesso della parola Europa è diverso a seconda se la comprenda o no. Lo è per peso economico e finanziario di una potenza nucleare e militare, che è centro del Commonwealth e ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza. Lo è per il contributo che l’Inghilterra ha dato all’impostazione liberale della costruzione europea. Se esce l’Inghilterra l’inglese non sarà più una lingua dell’Unione, i documenti non dovranno più essere redatti in inglese. Certo, ci sono anche i retaggi storici, ma quelli vanno trattati con cautela. Perché nel passato c’è la Magna Grecia e i regni ellenistici, il Mare nostrum e la Quarta sponda, Dante e il “popolo di poeti e navigatori”. Non abbiamo ancora finito a cavar sensi dai presocratici.
Si parla di un grande progetto europeo, ma quanto alla sua consistenza esso, a volte, sembra avere caratteri reminiscenti dell’Azione parallela. Con tutto il sincero rispetto per i sogni elaborati negli anni di confino, chi li ha poi calati in decisioni, ha verificato che queste fossero condivise dai popoli d’Europa? Con tutta la partecipazione al “mai più” raccolto nelle città distrutte e nei campi di distruzione, in che rapporto sta con la realtà delle regole di Bruxelles o dei vincoli di Maastricht? I filosofi e gli economisti, gli Habermas e i Sen, oltre che descrivere i loro sogni, non sembrano aver verificato che corrispondessero al volere dei popoli d’Europa. Prendiamo l’immigrazione, un problema che riguarda direttamente i singoli paesi: non si vede perché l’Europa nel suo complesso dovrebbe prendere decisioni che contrastano con il loro volere. I paesi che volevano aprire le porte, la Svizzera durante la guerra, l’hanno fatto: era coerente con la sua prerogativa di neutralità, di porto sicuro, le difficoltà erano anche l’occasione per riaffermarla. (Hanno poi fatto diversamente quando hanno piegato la loro Costituzione al volere degli americani).
Nel nostro passato, come mito fondante per la nostra unificazione, troviamo il Sacro romano impero, come eroi Carlo V e Napoleone. Poi alcuni dei fondatori si sono creduti founding fathers, e sarebbe interessante scavare per capire le ragioni di questa fascinazione, anche in chi ancora adesso prende le distanze da tanti aspetti della vita americana, dal loro modello culturale e sociale, perfino dalla loro politica interna. Un giorno a sognare gli Stati Uniti d’Europa, il giorno dopo a denigrare quelli originali perché, come al solito, hanno scelto il presidente sbagliato. L’aveva già capito Goethe, nel 1827: “Amerika, du hast es besser/Als unser Kontinent, das alte/Hast keine verfallene Schlösser/Und keine Basalte./Dich stört nicht im Innern,/Zu lebendiger Zeit,/Unnützes Erinnern/ Und vergeblicher Streit”. Perché dovremmo rifarci a un modello che è nato proprio per prendere le distanze dal “nostro continente”, una nazione che quindi non ha più né “castelli cadenti” né antichi “basalti”, che non è “disturbata nel profondo da inutile ricordare e vano disputare”? Si invocano i modi che esistono per trasferire ricchezze tra stati dell’Unione, ma non si recepisce, di quel modello, la regola chiave per il suo buon funzionamento, quella che, consentendo che uno stato possa fallire, conferisce flessibilità al sistema.
Sparisce, tra i sogni, l’idea forte di unificazione per demos, e ci si addolora se il sentimento anti europeo è vicino a essere maggioritario tra i popoli d’Europa. Se la Costituzione europea è stata respinta dai referendum, invece di dedurne che l’errore fosse nella sua progettazione, si pensa che l’errore sia stato quello delle più fini menti politiche d’Europa per come l’hanno redatta.
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giugno 26, 2015