Per essere uno che ha investito un bel pacco di soldi in una nostra azienda, non si può dire che l’abbiamo accolto tanto bene, il signor Xavier Niel. Capisco la perplessità per i complicati strumenti finanziari che ha scelto per farlo. Capisco il dissimulato fastidio di Vivendi: voleva sistemarsi con calma e garbo nella posizione in cui era venuta a trovarsi, e si trova obbligata ad accelerare i tempi dell’acclimatazione. Capisco le preoccupazioni dei vertici aziendali: a cambiamenti nell’azionariato seguono di regola cambiamenti sul ponte di comando.
Non capisco il Governo: «Telecom è un’azienda strategica» è l’ammonimento con cui ha dato il benvenuto, ed è stato subito chiaro che aria tirava. L’han capito i giornali: le convocazioni del presunto attaccante e del presunto attaccato da parte delle Autorità di controllo sono state riportate come fossero atti inquisitivi piuttosto che richiesta di informazioni. È vero che l’eventualità di patti occulti tra i due azionisti va monitorata attentamente sia ai fini dell’Opa, da cui l’intervento di Consob, sia ai fini del formarsi di posizione dominante, da cui quello dell’Antitrust. Ma oltre a registrare dichiarazioni ufficiali che, ove mai in futuro dovessero risultare false, avrebbero conseguenze devastanti per chi le ha rese, non si vede la ragione per cui la richiesta di una deposizione debba essere raccontata come una minaccia.
Non è compito delle Autorità commentare le delibere di un Consiglio di Amministrazione, ma entrambe dovrebbero trovare motivi di soddisfazione da quanto è stato deciso nell’ultimo board di Telecom Italia: Consob, perché con la decisione di convertire le azioni di risparmio in ordinarie aumenta la trasparenza; Antitrust perché l’adozione da parte di Telecom della equivalence of input migliora l’eguaglianza di condizioni di utilizzo della rete: infatti per Telecom come per gli altri operatori saranno uguali le procedure di ingresso nella centralina, e non solo, come finora con la equivalence of output, le prestazioni in uscita. «Azienda strategica» dice il Governo, e sappiamo cosa intende: l’italianità dell’azienda e il controllo della rete fissa. Ma questa non è una strategia, è un «assedio strategico». Se negli anni passati Telecom non ha avuto o è parsa non avere strategia, è in gran parte dovuto ai divieti (remember Murdoch?), ai vincoli (remember Telefònica?), agli attacchi (remember Rovati?) che sono stati portati a «un’azienda che è stata privatizzata, ma non è privata». Continuare su questa strada oggi non ha più senso.
Non ha senso riguardo allo sviluppo della rete, dove l’azienda si è impegnata a realizzare un programma ambizioso in tempi contenuti. Se qualcuno pensa che sia strategico il possesso di Sparkle, la si venda, la Cdp farà buona guardia. Non ha senso riguardo a come è già cambiato il gioco competitivo. Telecom può concentrarsi ad essere un fornitore di connettività ultraveloce ad aziende e amministrazioni, di banda e 4G agli operatori mobili, (compresa Tim se riuscisse a venderla), i quali ormai sono diventati reti di negozi di vendita di smartphone. Oppure Telecom può tentare e il gran salto e diventare venditore di contenuti. Per il coup de théatre della fusione con Mediaset è politicamente troppo presto, per quella con Rai (che davvero darebbe vita a un national champion) è troppo tardi, si sarebbe dovuta privatizzarla dieci anni fa. Ma, basta guardarsi in giro, tante sono le combinazioni possibili. Che fornisca connettività o contenuti, il Brasile è solo un asset di valore: meglio (sarebbe stato) venderlo.
Non ha senso riguardo a come cambierà il quadro dei concorrenti: oggi in Europa vi partecipano oltre 70 operatori, in America sono quattro. Tutto fa supporre che si vada verso un consolidamento: bisogna predisporsi non come fosse una minaccia da cui proteggersi, ma come sarà, un’opportunità di cui approfittare. Bisogna pensare ai servizi interessanti e utili che ne possono derivare per i consumatori (persone aziende amministrazioni) italiani, più che a dove si trova la sede centrale di chi li fornisce. In questo gioco chi non ha la stazza per sfondare (e forse Telecom Italia non ce l’ha) deve avere la rapidità di riflessi per intuire le mosse e l’agilità per inserirsi. Il solo parlare di golden share significa escludersi dalle combinazioni, una partecipazione dello Stato nel capitale dell’azienda significa rallentarle e complicarle. L’ingresso di Vivendi e di Niel dovrebbero far capire che i giochi sono incominciati. Restare spettatori non sembra un granché come strategia.
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novembre 13, 2015