E’ il momento per definire la “giusta spesa” in carico allo Stato.
“Se la Germania mostrasse un po’ più di generosità, la Francia cedesse un po’ più di sovranità, e l’Italia avesse un po’ più di affidabilità, non ci sarebbero tanti problemi”: il vecchio adagio, popolare a Bruxelles perché consente di guardare più nei piatti degli altri che nel proprio, oggi gira a nostro favore: quanto a affidabilità, all’Italia con Mario Monti e il suo Governo non ha manca proprio nulla. Ma lo spread misura il rischio dei bond a 10 anni, e tra meno di un anno il governo tecnico sarà stato sostituito da un governo eletto. Di qui la domanda: i comportamenti oggi delle forze politiche che esprimeranno quel governo sono tali da assicurare anche per il futuro l’affidabilità che ci si aspetta da noi?
E’ naturale che tagli e tasse, e i malcontenti o le sofferenze che producono, siano visti da alcune forze politiche come fonte di preoccupazione, da altre come occasione di crescita elettorale; che quindi nei riguardi delle misure di austerità che sta prendendo il governo, le prime cerchino di diminuirne la portata, le seconde ne promettano l’abrogazione. Ma se parliamo di affidabilità, non conterà quanti saranno i provvedimenti irreversibili (le riduzione delle province) che il parlamento avrà confermato, quanti saranno quelli reversibili (gli acquisti centralizzati delle siringhe), i giunchi che si raddrizzano passata la piena. Non conterà neppure che non si sia osato abbastanza, come giustamente constata Guido Gentili nel suo editoriale di sabato. Conterà se si è capito che questa è la grande occasione (e si resiste alla tentazione di scrivere l’ultima occasione) per mettersi d’accordo su un punto tante volte discusso, ma mai deciso: ridefinire i beni e servizi che vogliamo che lo stato ci fornisca, e riformare il suo modo di funzionare per darceli.
Lo spread riflette anche fatti che non dipendono (solo) da noi, la tenuta dell’euro, il modo in cui i trattati verranno interpretati o modificati. Ma lo scudo anti spread, per quello che si è capito, si attiverà solo dopo che le misure di controllo del deficit e di rientro del debito avranno avuto il placet di Bruxelles. Se l’anno dopo il placet non ci fosse più, e lo scudo cadesse, che si fa, si restituiscono gli spread risparmiati? L’affidabilità dipende da quanto si fa capire oggi di ciò che si farà domani: da come le forze politiche hanno fatto proprio non l’intervento in emergenza ma il programma in continuità, da come la spending review viene considerata punto di partenza di un percorso che ha come punto di arrivo la definizione di ciò che lo stato fa e la riforma di come lo fa. E non si dica che è il solito vaste programme per non fare nulla: per guadagnare affidabilità basterebbe dimostrare che si condivide un obbiettivo e ci si impegna su un metodo.
E’ così oggi? E’ stato così finora? C’è da chiederselo. Prendiamo l’introduzione in Costituzione del principio del pareggio di bilancio. Com’è noto, dagli anni ’60, col keynesismo dilagante, e con i nuovi equilibri politici, si afferma un’interpretazione dell’art 81 per cui la legge di bilancio ha valore sostanziale, può disporre provvedimenti incisivi sugli sviluppi futuri della finanza, e prestabilire fondi speciali in previsione di future leggi. Con i lavori teorici di Valerio Onida, il sostanziale avallo della Banca d’Italia di Guido Carli nel 1964, la sentenza della Corte del 1966, la copertura in disavanzo diventa la lettura ortodossa dell’articolo 81 della Costituzione. Dieci anni dopo più del 40 per cento della spesa è finanziato con il ricorso al debito. L’introduzione in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio faceva parte del pacchetto di misure richieste dalla Germania per dare il via al “fondo salva-stati”: per noi doveva essere il segnale del ripudio definitivo delle prassi che avevano consentito il formarsi del nostro debito. Invece si è licenziato un testo che la parola “pareggio” neppure la contiene, sostituita da un generico “equilibrio”, proprio la stessa espressione che aveva autorizzato l’aggiramento del divieto pur previsto dal vecchio art. 81. Con l’esprit florentin l’Italia non guadagna affidabilità.
br>Nei giorni scorsi il Ticino è passato dal novero dei Cantoni che ricevono a quelli che contribuiscono ai trasferimenti interni alla Confederazione: molti sostengono che un sistema di trasferimenti sia indispensabile in un’unione monetaria. La Germania è contraria, ma a spaventarla non è il Ticino bensì il Mezzogiorno. In 150 anni si sono mandati e sacrificati uomini, forzate integrazioni e concesse autonomie, erogati danari dal centro con la Cassa del Mezzogiorno e gestiti contributi in periferia con la Nuova Programmazione: c’è da pensare che ai tedeschi verranno in mente cose che li indurranno a irrigidirsi nel rifiuto vedendo che Fabrizio Barca, che questo nuovo corso ha immaginato, definito ed impersonato, viene ipotizzato come futuro leader politico della sinistra. Detto per inciso e senza alcun intento polemico: i concetti di “tecnico” e di “risultato” sono fra loro indipendenti? In Sicilia c’è un dipendente pubblico ogni 14 abitanti*. Ma il sistema di trasferimento e l’autonomia regionale consentono il perdurare di questa situazione senza che neppure si ipotizzino misure del tipo di quelle che deve subire la Grecia (dove il rapporto è di 1 a 13).
Dare affidabilità è possibile senza per questo mettere ipoteche o iscrivere servitù sulle scelte politiche, né sulle presenti né sulle future. Quanti mostrano di accettare a cuor leggero il trasferimento di sovranità che ritengono necessario per la salvezza nostra e dell’euro, dovrebbero però avere coscienza che è niente di meno di un cambio di paradigma quello che oggi a noi si chiede. E che a fornire la risposta sarà anche quanto in questi giorni viene dibattuto.
*Esercito di dipendenti, 1 su 14 siciliani
luglio 11, 2012