→ giugno 14, 2015
di Francesco Giavazzi
Da oltre 5 anni è la Grecia il problema che più preoccupa l’Europa: non il lavoro, non l’immigrazione e nemmeno la Russia di Putin, ma un Paese che rappresenta meno del 2 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) delle nazioni che partecipano all’unione monetaria. Sarebbe interessante calcolare quante ore la signora Merkel ha dedicato ad Atene in questi 5 anni. Che penseremmo se scoprissimo che il presidente Obama dedica altrettanto tempo ai problemi del Tennessee, uno Stato che conta, nella federazione americana, un po’ più della Grecia nell’eurozona?
In questi 5 anni il mondo, soprattutto in Oriente, è cambiato. In Cina e India sono saliti al potere politici nuovi, che hanno rotto con il passato. A Pechino il presidente Xi Jinping ha avviato un processo di riforme che ha un solo precedente: Deng Xiaoping all’inizio degli Anni 90. In India Modi ha messo fine a sei decenni di predominio politico della famiglia Gandhi e soprattutto rivendica la matrice induista del Paese. Noi invece, anziché chiederci quale Europa possa far sentire la propria voce e difendere i propri interessi, economici e militari, in un mondo geograficamente e politicamente in forte mutamento, passiamo le giornate a parlare di Grecia.
Dopo 5 anni di discussioni che non hanno prodotto alcuna riforma significativa – le poche fatte, come il tentativo di ridurre il numero di dipendenti pubblici, sono state in gran parte rovesciate da Tsipras – è ormai evidente che i greci non pensano che la loro società debba essere modernizzata e resa più efficiente. Sembrano non preoccuparsi di un sistema che per oltre quarant’anni, dagli anni 70 ad oggi, ha aumentato il numero degli occupati nel settore privato al ritmo dell’uno per cento l’anno, mentre i dipendenti pubblici crescevano del quattro per cento l’anno con un sistema di reclutamento fondato per lo più sulla raccomandazione politica.
Certo, anche gli europei hanno sbagliato. Da quando, nel 2002, Atene è entrata nell’unione monetaria abbiamo prestato alla Grecia oltre 400 miliardi di euro (circa due volte il Pil del Paese) senza chiederci se quella cifra sarebbe mai stata ripagata. È però inutile oggi sprecar tempo, coltivando l’illusione, che ha sfiorato i finlandesi, che forse potremmo venir ripagati in natura, con la cessione di qualche isola. Le cannoniere britanniche dell’Ottocento fortunatamente non ci sono più. Il passato è passato, meglio metterci una pietra sopra.
E se i greci non vogliono modernizzarsi, inutile insistere: d’altronde hanno votato a gran maggioranza un governo che continua ad essere popolare. Hanno scelto, spero consciamente, di rimanere un Paese con un reddito pro capite modesto, metà dell’Irlanda, inferiore a Slovenia e Corea del Sud, che fra qualche anno verrà superato dal Cile. Spero che però nessuno ad Atene si illuda che fuori dall’euro, anche una volta cancellato il debito, inflazione e svalutazione possano essere un’alternativa a rendere l’economia più efficiente.
Penso sia venuto il momento di chiederci quanto sia importante per noi tenere la Grecia nell’Unione Europea, perché di questo si tratta: se Atene abbandonasse l’euro dovrebbe anche uscire dall’Ue. Il criterio non può essere la difesa dei nostri crediti, che comunque non potranno essere recuperati. A guidarci non può essere nemmeno quanto rischi l’unione monetaria che ormai, grazie alla Banca centrale europea, è sufficientemente robusta per poter affrontare l’uscita di un Paese come la Grecia.
La vera domanda è quanto ci interessa mantenere in Europa non tanto il museo della nostra civiltà, quanto soprattutto la delicata cerniera geopolitica fra Europa e Paesi islamici, in primis la Turchia. Il che non significa cedere al ricatto di Tsipras, ma accettare il rischio che comporta la condivisione della moneta con un Paese che ha liberamente deciso di non volersi modernizzare. Ma il salto politico necessario per porci questa domanda non siamo in grado di farlo. L’unione monetaria ha avuto il grande merito di accelerare l’integrazione economica – si pensi al trasferimento a Francoforte della vigilanza sulle banche – ma non può essere un sostituto dell’integrazione politica. Se la crisi greca ci aiuterà a comprenderlo, non saranno stati 5 anni spesi invano .
→ giugno 14, 2015
by Wolfgang Münchau
So here we are. Alexis Tsipras has been told to take it or leave it. What should he do?
The Greek prime minister does not face elections until January 2019. Any course of action he decides on now would have to bear fruit in three years or less.
First, contrast the two extreme scenarios: accept the creditors’ final offer or leave the eurozone. By accepting the offer, he would have to agree to a fiscal adjustment of 1.7 per cent of gross domestic product within six months.
My colleague Martin Sandbu calculated how an adjustment of such scale would affect the Greek growth rate. I have now extended that calculation to incorporate the entire four-year fiscal adjustment programme, as demanded by the creditors. Based on the same assumptions he makes about how fiscal policy and GDP interact, a two-way process, I come to a figure of a cumulative hit on the level of GDP of 12.6 per cent over four years. The Greek debt-to-GDP ratio would start approaching 200 per cent. My conclusion is that the acceptance of the troika’s programme would constitute a dual suicide – for the Greek economy, and for the political career of the Greek prime minister.
Would the opposite extreme, Grexit, achieve a better outcome? You bet it would, for three reasons. The most important effect is for Greece to be able to get rid of lunatic fiscal adjustments. Greece would still need to run a small primary surplus, which may require a one-off adjustment, but this is it.
Greece would default on all official creditors – the International Monetary Fund, the European Central Bank and the European Stability Mechanism, and on the bilateral loans from its European creditors. But it would service all private loans with the strategic objective to regain market access a few years later.
The second reason is a reduction of risk. After Grexit, nobody would need to fear a currency redenomination risk. And the chance of an outright default would be much reduced, as Greece would already have defaulted on its official creditors and would be very keen to regain trust among private investors.
The third reason is the impact on the economy’s external position. Unlike the small economies of northern Europe, Greece is a relatively closed economy. About three quarters of its GDP is domestic. Of the quarter that is not, most comes from tourism, which would benefit from devaluation. The total effect of devaluation would not be nearly as strong as it would be for an open economy such as Ireland, but it would be beneficial nonetheless. Of the three effects, the first is the most important in the short term, while the second and third will dominate in the long run.
Grexit, of course, has pitfalls, mostly in the very short term. A sudden introduction of a new currency would be chaotic. The government might have to impose capital controls and close the borders. Those year-one losses would be substantial, but after the chaos subsides the economy would quickly recover.
Comparing those two scenarios reminds me of Sir Winston Churchill’s remark that drunkenness, unlike ugliness, is a quality that wears off. The first scenario is simply ugly, and will always remain so. The second gives you a hangover followed by certain sobriety.
So if this were the choice, the Greeks would have a rational reason to prefer Grexit. This will, however, not be the choice to be taken this week. The choice is between accepting or rejecting the creditors’ offer. Grexit is a potential, but not certain, consequence of the latter.
If Mr Tsipras were to reject the offer and miss the latest deadline – the June 18 meeting of eurozone finance ministers – he would end up defaulting on debt repayments due in July and August. At that point Greece would still be in the eurozone and would only be forced to leave if the ECB were to reduce the flow of liquidity to Greek banks below a tolerable limit. That may happen, but it is not a foregone conclusion.
The eurozone creditors may well decide that it is in their own interest to talk about debt relief for Greece at that point. Just consider their position. If Greece were to default on all of its official-sector debt, France and Germany alone would stand to lose some €160bn. Angela Merkel and François Hollande would go down as the biggest financial losers in history. The creditors are rejecting any talks about debt relief now, but that may be different once Greece starts to default. If they negotiate, everybody would benefit. Greece would stay in the eurozone, since the fiscal adjustment to service a lower burden of debt would be more tolerable. The creditors would be able to recoup some of their otherwise certain losses.
The bottom line is that Greece cannot really lose by rejecting this week’s offer.
→ aprile 18, 2015
Qual è la vera consistenza della contrapposizione tra Commissione e Consiglio Europeo da un lato e governo greco dall’altro, che venerdì è tornata a far ballare i mercati con le Borse europee in rosso e lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi che ha lambito quota 150? Si trattasse di una questione economica, in un modo o nell’altro sarebbe già stata risolta: è chiaro che nessuno, tanto meno la cancelliera tedesca Angela Merkel, può accettare di avere più fronti aperti contemporaneamente, e che Ucraina e Stato islamico (Is) hanno peso e urgenza ancora maggiori.
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→ marzo 18, 2014
Per gli italiani George Soros è quello dell’attacco alla lira, dell’uscita dallo Sme, della svalutazione del 1992. Speculatore con un acuto senso delle linee di faglia dei mercati, filantropo generoso nel diffondere l’idea di società aperta nei Paesi usciti dal comunismo, pensatore con una visione esagerata di sé («Volevo essere un riformatore economico, come Keynes, o meglio ancora, uno scienziato, come Einstein»), Soros è davvero un personaggio singolare. La tragedia dell’Unione europea: disintegrazione o rinascita? è il libro che raccoglie quattro interviste che gli ha fatto Gregor Peter Schmitz, giornalista dello Spiegel; tre nell’estate 2013, l’ultima a dicembre, dopo le elezioni tedesche e il compromesso sull’unione bancaria.
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→ dicembre 20, 2013
“La commissione di monopoli in Germania – copio integralmente dal Corriere della Sera – ha invitato lo stato a disfarsi della partecipazioni in Deutsche Telekom per evitare un conflitto di interessi. Secondo la commissione il governo, che detiene il 30% è in conflitto di interessi perché controlla quote della società e nello stesso tempo deve garantire una giusta concorrenza”.
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→ agosto 31, 2013
“Chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?” Di tempo ne è passato da quando Henry Kissinger avrebbe detto la famosa battuta. Oggi potrebbe chiamare l’Alto Commissario dell’Unione Europea per le relazioni estere, Lady Ashton: ma una volta c’è la Libia, l’altra il Mali, poi l’Egitto, oggi la Siria, e le bollette del telefono aumentano sempre. Il premier Letta ha avuto un’idea brillante: se non possiamo dargli un numero di telefono unico, diamogli un numero di canale unico. Fare la Radio Tv europea (e, ça va sans dire, pubblica), ha annunciato, sarà la proposta politica qualificante del semestre europeo a guida italiana.
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