→ aprile 1, 2007
La nomina dei membri del Consiglio di Amministrazione di Telecom è al centro di una partita la cui posta è il valore di quel 18% di Telecom nel portafoglio di Olimpia. Infatti la giurisprudenza considera il potere di nominare gli amministratori come prova del controllo. L’entità della posta in gioco è data dalla forchetta tra il prezzo richiesto da Pirelli– in teoria 3 € per azione, in pratica qualcosa intorno a 2,7 – e il prezzo di Borsa. ( venerdì ha chiuso a….).
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→ marzo 16, 2007
I vincoli creati dal Governo nel ritenere Telecom “strategica” costringono a cercare complesse mediazioni
Non esiste un problema Telecom. Esiste un problema diverso: si chiama “premio di controllo”, ed è nato con il sovrapprezzo che Pirelli ha pagato nel 2001 a Gnutti e soci, “concentrato” su quel 18% per cui il controllo è passato di mano senza passare per il mercato. Pirelli l’ha parzialmente svalutato: ora cerca di recuperare quanto più può di ciò che è rimasto. Che riesca nel suo intento e in che misura é questione essenzialmente politica.
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→ settembre 26, 2006
“Una cosa nota, perché nota, non è conosciuta”. La frase di Hegel ben si adatta alla discussione sulla separazione societaria della rete fissa di Telecom, dove la cosa nota è che questa sia la strada maestra, e che l’Inghilterra l’abbia adottata. Nota ma non conosciuta. Perché è vero il contrario: questa non é la strada maestra e l’Inghilterra non l’ha adottata.
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→ settembre 23, 2006
ha qualcosa di indecente lo scambio che qualcuno avrebbe proposto a Berlusconi, si comperi pure Telecom, ma rinunci per sempre alla politica (Telecompromessi, il Foglio di giovedì). Se poi viene avanzata da sinistra, la proposta è anche autolesionistica: dimostra infatti la strumentalità con cui vengono branditi i sacri principi della limitazione dei poteri e del divieto al formarsi di posizioni dominanti, i cavalli di battaglia contro le leggi Frattini e Gasparri.
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→ settembre 17, 2006
di Tito Boeri
Dopo aver seguito in questi giorni le animate conferenze stampa della nostra fitta delegazione, i cinesi si stanno probabilmente chiedendo che razza di Paese sia l’Italia. Loro se ne intendono sia di affari che di intervento dello Stato in economia. E hanno ascoltato una sequenza di notizie alquanto sorprendenti. Primo, il manager del più grande gruppo italiano (anche per numero di consulenti ed advisors) rimane in sella per cinque anni pur a fronte di risultati deludenti, se non addirittura disastrosi come nei media, e di un indebitamento al di sopra della media del settore.
Secondo, questo numero uno rinnega, con l’approvazione unanime del consiglio di amministrazione, la promessa fatta agli azionisti sul prospetto informativo depositato solo un anno e mezzo fa. I risparmiatori, tra cui forse anche qualche cinese emigrato in Italia, hanno mestamente assistito negli ultimi 5 anni al dimezzamento del valore del titolo in Borsa credendo nelle «sinergie» e nella «creazione di valore» associata all’integrazione fra fisso, mobile, Internet e media. Apprendono ora, tutto d’un colpo, che il valore si crea invece solo spaccando in due, anzi in tre, l’azienda.
Terzo, il nostro governo, impegnato a convincere uomini d’affari cinesi a investire in Italia e le autorità di Guangdong a fidarsi di noi, divulga nei minimi particolari i contenuti di trattative riservate in corso tra Telecom e altre aziende.
Quarto, il nostro premier confessa di essere del tutto all’oscuro della vicenda, nonostante vi sia, tra i suoi consiglieri, chi ha preparato piani di riassetto dell’azienda in puro stile banca di investimento (termine tradotto in italiano perché, come è noto, nella merchant bank di Palazzo Chigi non si parla l’inglese).
Quinto, il numero uno di cui sopra si dimette, motivando la sua scelta non tanto in base ai pessimi risultati dell’azienda quanto alle interferenze del governo, e il consiglio sempre all’unanimità chiama l’uomo della provvidenza, attualmente alla guida della Federcalcio. In effetti, i cinesi hanno potuto in questi giorni toccare con mano la Coppa del Mondo esibita negli stand dell’Ice a Canton. Ma non c’era bisogno di questo per convincerli che il rosso, declinato al plurale, è sinonimo di successo.
Probabilmente i cinesi, nelle prossime settimane, avranno altro di cui occuparsi. Non potranno dunque acquisire quelle ulteriori informazioni, che forse potrebbero dare un senso a vicende apparentemente incomprensibili. Siamo il Paese in cui si lasciano sempre trapelare i segreti, basta che siano quelli degli altri. Quindi tranquillizziamoci: prima o poi, sapremo tutto. Ma una cosa è chiara sin d’ora, anche ai cinesi che sono maestri nel fare e disfare scatole e nello stare in mezzo al guado, fra Stato e mercato.
Se avessimo un capitalismo maturo e una classe politica che ha una cultura economica (prima ancora che di mercato) adeguata, probabilmente nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto. Non avremmo catene di controllo bizantine, per cui gli utili di un’azienda che continua a macinare profitti nella telefonia mobile grazie alla scarsa (altro che eccessiva!) regolazione del settore, non vanno ad abbattere l’indebitamento, ma affluiscono ai piani alti della catena. Non avremmo neanche manager-padroni che possono sopravvivere, nonostante i loro palesi errori, ai posti di comando per quelli che nei mercati finanziari sono tempi biblici. Avremmo invece più concorrenza nelle telecomunicazioni e prezzi più bassi per gli utenti, il vero interesse nazionale, mentre il maggior gruppo italiano sarebbe un conglomerato con azionariato diffuso, controllato da un manager con una piccola quota. Non avremmo neanche personale nella cabina di regia con smanie di protagonismo, che vogliono intervenire in prima persona nella vita di un’impresa privata, anziché limitarsi a regolare e far leggi che assicurino che i piccoli azionisti abbiano voce in capitolo. Non avremmo progetti, comunque maturati non lontano dalle stanze dei bottoni, in cui torna in auge una creatura, assai popolare nella scorsa legislatura, come la Cassa Depositi e Prestiti, per rinazionalizzare la rete telefonica. Non vi sarebbe neanche chi al governo, per fortuna non tra i ministeri economici, chiede l’utilizzo della golden share, come se fossero in gioco gli «interessi vitali» del Paese. Di vitale per il Paese c’è in questa vicenda solo la credibilità internazionale. Bene salvaguardarla, a tutti i livelli.
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→ settembre 15, 2006
di Alessandro Penati
Pirelli deve uscire dal cul de sac in cui si è cacciata cinque anni fa, indebitandosi per strapagare la conquista di Telecom. L’avventura ha lasciato gli azionisti con l´amaro in bocca: il titolo ha perso il 30% del suo valore negli ultimi cinque anni, nonostante la Borsa sia salita del 61%. E Pirelli con tanti debiti: probabilmente supereranno i 2 miliardi a fine anno, più gli oltre 3 di Olimpia, che Consob dovrebbe chiedere di consolidare. Le dismissioni potrebbero essere una soluzione. Ma se anche Pirelli cedesse la rimanente parte di pneumatici e immobiliare, per eliminare il debito e concentrarsi in Telecom, non riuscirebbe a remunerare adeguatamente gli azionisti se non fra qualche lustro. L’alternativa – riconoscere di aver strapagato, vendere la quota in Telecom al miglior offerente, e voltare pagina – è inaccettabile per il gruppo di controllo: Pirelli diventerebbe un gruppo industriale di medie dimensioni, ancora indebitato, fuori dalle luci della ribalta.
Da qui la “riorganizzazione” di Telecom per risolvere i problemi di Pirelli: vendere le attività che valgono di più (Tim, e la Rete) per azzerare l´indebitamento; cavalcare l’entusiasmo della Borsa per il connubio media-Internet; e riposizionarsi nel settore che in Italia garantisce il maggior peso politico. Un piano giustificato con il deterioramento delle prospettive della telefonia e i vincoli posti dall’Authority, che impedirebbero a Telecom di competere. Argomentazioni deboli.
Giustamente l’Authority impedisce a Telecom di offrire ai clienti della rete fissa, acquisiti in virtù del vecchio monopolio e finanziati dal canone, un telefono che fuori di casa si trasformi automaticamente in un portatile: sarebbe un’offerta commerciale che nessun concorrente potrà mai replicare. Ma non le vieta di proporre un servizio integrato di telefonia fissa, mobile e Internet, come altri operatori. Inoltre, è vero che le prospettive della telefonia sono peggiorate ovunque, ma i problemi della società sono imputabili anche a una serie di errori nella gestione Tronchetti Provera: per primo, l’incredibile errore di valutazione al momento dell’acquisizione del controllo.
La politica di cessione delle partecipazioni estere ha concentrato l’attività di Telecom sul mercato italiano, saturo e a bassa crescita. Gli investimenti nel settore dei media, dove l’azienda vuole riposizionarsi, sono stati disastrosi: dal 2002 a oggi, le televisioni del gruppo hanno fatturato 550 milioni, perdendone 350 (prima di oneri e tasse). L’indebitamento di Telecom, più elevato della media di settore, non è piovuto dal cielo: 15 dei 41 miliardi derivano proprio dalla fusione con Tim, che è stata finanziata con il debito per non diluire il valore del premio di controllo di Olimpia. E il debito non si riduce anche perché sugli utili di Telecom grava l’onere dei dividendi che devono affluire ai piani alti della catena di controllo.
La vendita di Tim sarebbe un errore fatale: priverebbe Telecom della principale fonte di cash flow e di un vasto parco clienti da utilizzare, come fanno le società telefoniche di mezzo mondo, per finanziare gli investimenti nella banda larga e nell’acquisto di contenuti multimediali. Per comprare Tim ci sarebbe la coda. E, paradossalmente, al nuovo proprietario, basterebbe acquisire una società che già offre banda larga (come Fastweb) e, avendo risorse e clienti, negoziare accordi con grandi produttori di contenuti per ricostruire in poco tempo una “Telecom” più forte.
L’ipotesi poi che il valore delle attività Internet possa moltiplicarsi, trasformando Telecom in una media company, è discutibile. Nel connubio media-rete vince chi ha i contenuti, non chi li distribuisce: sono i contenuti a fidelizzare i clienti, non la rete, anche perché sono in molti a poter offrire l´accesso alla banda larga. Qualsiasi accordo con Murdoch andrebbe a vantaggio soprattutto di Sky. E poi, ci si dimentica che il successo di Internet implica un trasferimento di ricavi e pubblicità a danno dei media tradizionali. Ma poiché la quantità di media che le persone consumano al giorno è limitata, e la rete aumenta la concorrenza nella distribuzione, è più logico aspettarsi che in futuro siano i multipli di valutazione dei media a ridursi, piuttosto che quelli delle società telefoniche a esplodere.
La verità è che per cercare di mettere fine alle sofferenze degli azionisti Pirelli, si pregiudica il futuro di Telecom. Capisco la preoccupazione del cittadino Prodi. Ma la sua reazione come capo del Governo è censurabile per quattro ragioni. Perché non può violare le regole del libero mercato dei capitali che lui stesso ha posto alla base della costruzione europea. Perché regala al gruppo di controllo di Telecom la patente di vittima di un ottuso e obsoleto dirigismo, facendone passare in secondo piano le gravi responsabilità nella gestione del gruppo. Perché il problema non è Tim in mani straniere, ma un fallimento clamoroso di governance e regole di mercato, che permette a Trochetti Provera e ai suoi manager, che non sono proprietari di Telecom, né di Pirelli, di continuare a gestire il primo gruppo italiano, dopo cinque anni di risultati deludenti. E perché i fallimenti del nostro capitalismo non si risolvono con la quasi nazionalizzazione delle reti, attraverso la Cassa depositi e prestiti, o con la tutela pubblica che trasforma Palazzo Chigi nella succursale di una investment bank.
Le dimensioni di una società telefonica sono oggi incompatibili con la presenza di un gruppo di controllo. La miglior difesa degli azionisti di Telecom e degli interessi nazionali sarebbe dunque una società a capitale diffuso con un management scelto solo in base a capacità e risultati. Senza badare a pedigree o passaporti. E questo è possibile solo se investitori istituzionali, consiglieri indipendenti e stampa specializzata fossero pronti a fare pressioni per rimuovere il management incapace. In Telecom, come in qualsiasi altra azienda.
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