→ dicembre 17, 2013
di Massimo Mucchetti
Faccio appello al premier e al segretario del Pd, dalle colonne de l’Unità, affinché rompano gli indugi e battano un colpo per salvare Telecom Italia dalle opache mene di un concorrente, Telefonica, o quanto meno costringano tale insidioso soggetto a pagare il dovuto lanciando un’Opa per contanti rivolta a tutti gli azionisti. Non che questo garantisca troppo, ma almeno la triste fine della madre di tutte le privatizzazioni costerebbe qualcosa al beneficiario finale e non si sarà risolta in un mancia, elargita dall’hidalgo Alierta, ai tremebondi signori di Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca d’intesa con Mediaset.
E guardino, Letta e Renzi, che l’evocazione di Mediaset non è una svista travagliesca.
Sono perfettamente consapevole che questo appello ha poche probabilità di essere accolto. Enrico Letta non è mai venuto in Parlamento a illustrare la linea del governo e a rispondere alle perplessità che essa suscita. Si è limitato a poche parole di maniera: un po’ poco per chi dice di voler fare politica industriale. Matteo Renzi ha fatto una battuta a «Servizio Pubblico» che ho dimenticato. Ma chi presiede la commissione Industria del Senato, interpretando peraltro un’opinione multipartisan, ha il dovere di parlare chiaro anzitutto ai leader del governo e del partito che sostiene.
Inerzia ingiustificata
L’inerzia del governo e del Pd non si giustifica con il rispetto del mercato in un mondo nel quale i governi intervengono pesantemente nell’economia. È dei giorni scorsi la notizia che il Tesoro Usa ha perso 11 miliardi di dollari investendo in azioni Gm. Ha fatto male? No. Ha dimostrato di avere coraggio e visione, perché oggi Gm è tornata grande e genera gettito fiscale.
Con la loro pseudo neutralità, Letta e Renzi stanno commettendo lo stesso errore che commise D’Alema nel 1999. L’allora premier postcomunista non fu responsabile di una privatizzazione sbagliata di Telecom, come ha detto Renzi. La privatizzazione la fecero Ciampi e Draghi due anni prima, e qui non abbiamo lo spazio per raccontarla come si deve. D’Alema non fece votare il Tesoro, ancora nel 1999 maggior azionista singolo di Telecom, nell’assemblea chiamata dal management per varare misure anti scalata, che sarebbero state possibili al raggiungimento del quorum. L’avesse fatto, sarebbe stato difficile per la Banca d’Italia, altra azionista Telecom, chiamarsi fuori e anche qualcun altro in Italia si sarebbe posto il dubbio se quell’Opa facesse davvero gli interessi dell’azienda. Forse non sarebbe stato sufficiente a raggiungere il quorum o forse sì.
Certo, la neutralità di D’Alema, che pure aveva la responsabilità di proteggere il valore della partecipazione Telecom del Tesoro, favorì gli scalatori e aprì le porte alla politica del debito, esaltata poi da Tronchetti Provera, e alla cristallizzazione del controllo di fatto in una scatola finanziaria, poi passata di mano più volte senza nulla dare ai soci di minoranza e ogni volta aggravando le condizioni dell’azienda.
Ora, non si può criticare D’Alema, che pure operava all’indomani dell’approvazione delle norme sull’Opa obbligatoria, e dunque si trovava in fase sperimentale, e poi seguire la stessa posizione ponziopilatesca quindici anni dopo, quando la legge sull’Opa che ha dimostrato tutte le sue fragilità e quando la sequenza delle diverse proprietà ha fatto i danni che sappiamo a Telecom.
Di più, non si può girare la testa dall’altra parte quando il fondo di private equity americano Blackrock, grande azionista di Telefonica e consulente ben remunerato di Intesa Sanpaolo, viene favorito dal management insediato dagli spagnoli e dai loro sodali italiani in modo smaccato e sospetto con l’attribuzione di una parte cospicua del convertendo senza seguire le procedure che regolano i rapporti tra parti correlate. Non si può considerare normale che Blackrock informi prima l’americana Sec del suo rastrellamento azionario in Telecom Italia e si faccia richiamare all’ordine dalla Consob. Non si può far escludere dalla commissione Bilancio della Camera l’emendamento sull’Opa per estraneità di materia (che, invece, al Senato era stata concessa) per evitare un confronto alla luce del sole e poi, nottetempo, infilare nella legge di Stabilità un emendamento sulla Consob, quasi a volerla commissariare mentre sta cercando di far luce sulle molte oscurità del caso Telecom.
Il premier Letta dice che non si interviene in una partita in corso. Ma si ricorda che cosa fece il governo di Madrid in occasione del tentato take over di Endesa da parte della tedesca E.On? E si ricorda come Enel ci arrivò, bussando a tutte le porte e pagando tutto a tutti? Di quale partita si parla se il contratto, siglato il 24 settembre 2013 tra i soci di Telco, non prevede nemmeno una data per il closing? Si è mai vista una partita dove l’arbitro dà il fischio di inizio ma nessuno sa quanto deve durare? Se il closing avviene tra 5 anni, restiamo fermi 5 anni aspettando Godot? Il presidente della Consob, dice che si può modificare la legge sull’Opa senza che si possa parlare di effetti retroattivi fino a quando Telefonica non avrà la maggioranza dei diritti di voto in Telco. Perché palazzo Chigi fa finta di niente?
Ansia di compiacere
C’è forse una sfiducia preventiva nella Consob di Giuseppe Vegas perché Vegas è stato nominato da un governo Berlusconi. Eppure, l’impegno di Forza Italia sul fronte Telecom sembra al momento non andare oltre l’impegno generoso e intelligente dei senatori Gasparri e Pelino. Mi risulta che Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, non condivida le modifiche all’Opa.
E poi leggo sul Sole 24 Ore che Mediaset sta studiando con Telefonica un’offerta comune per la pay-tv iberica Digital Plus. Che cosa deve pensare una persona normale? Che cosa penseranno i militanti del Pd che sperano di girare pagina?
Non capisco quest’ansia di compiacere un soggetto come Telefonica in nome dell’attrazione degli investimenti esteri. Telefonica non sta mettendo un euro in Telecom Italia. E non l’ha mai messo prima. Anzi è perfettamente corresponsabile della carenza di investimenti dell’ex monopolio, dovuta ai debiti fatti dai suoi «padroni», non dall’azienda. Certo, Telefonica dà qualche denaro a Intesa Sanpaolo, Generali e Mediobanca. Ma allora vediamola dalla parte dei venditori, questa storia. E allora, di nuovo ci vuole chiarezza. Su sua richiesta ho ricevuto il presidente delle Generali, Gabriele Galateri, dopo l’annuncio del 24 settembre.
Per scoraggiarmi dal proseguire con la riforma dell’Opa obbligatoria, che potrebbe costringere il suo amico Cesare Alierta a mettere mano al portafoglio se vuol comandare, Galateri ha detto di aver avuto via libera da chi di dovere prima del 24 settembre. Letta mi ha sempre detto di non averne mai saputo nulla. E questo il governo ha detto in Senato. Quali sono i poteri occulti che hanno dato via libera al presidente delle Generali oppure questi viene in Senato a millantare?
Una caricatura di mercato
Caro Letta, caro Renzi, fermate questa brutta giostra. Che è una caricatura di mercato. Prima che, magari, qualche magistrato scopra un concerto tra spagnoli e americani degno di quelli del banchiere Fiorani sulla pelle di una delle maggiori aziende italiane, non di una media banca com’era Antonveneta. Date via libera, anche se forse ormai è tardi, alla riforma dell’Opa. E non diteci che bisogna studiare di più. Sono passati tre mesi e non avete mosso un dito. E non diteci, quando riformate la Banca d’Italia per decreto in 10 giorni perché i disegni di legge rappresentano un binario morto, che qui ci vuole un disegno di legge.
→ ottobre 28, 2013
Intervista di Federica Meta a Tommaso Valletti
Secondo l’economista “agitarsi” attorno al tema della sicurezza e dell’occupazione “è tipico di un mondo che vuol conservare lo status quo e vuole trovare pretesti da dare in pasto al grande pubblico”. Le operazioni fatte in difesa dell’italianità “servono solo a trasferire risorse”
L’italianità della rete? Un grimaldello. Lo scorporo? Avrebbe un vantaggio per il Paese, a patto che avvenga in un quadro di regole certe. Tommaso Valletti, ordinario di Economia all’Imperial College London e all’università Tor Vergata di Roma, analizza gli scenari economici e industriali legati all’operazione Telefonica.
Come giudica l’operazione Telefonica su Telco?
Per analizzarla vanno considerate tre questioni diverse tra loro: i debiti di Telco, il prezzo pagato da Telefonica e le conseguenze per Telecom Italia.
Andiamo nel dettaglio.
I debiti ci sono da oltre dieci anni, in parte per via dei giochi di potere tipici del nostro capitalismo, le famose “operazioni di sistema”. Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo che nel passato si erano prestate volentieri a questo gioco, ora non sono più disposte ad investire. Per cui c’erano poche alternative alla salita degli spagnoli. Sul prezzo pagato, Telefonica ha fatto un buon affare dato che ha acquisito il controllo di Telco con pochi spiccioli. Ma questo lo consente la legge italiana sull’Opa che non tutela affatto gli azionisti di minoranza.
Le conseguenze per Telecom quali saranno a suo avviso?
La compagnia dovrà probabilmente dismettere, per motivi antitrust, le attività in Sud America. Ovviamente queste operazioni non avranno ricadute dirette sull’Italia, trattandosi di mercato separati. Ma comunque spiegano l’interesse di Telefonica per Telecom. Analizzando il mercato italiano, invece, non mi aspetto grandi cambiamenti: Telefonica, dal punto di vista industriale, è una società simile a Telecom Italia, più grande forse, ma con un volume di indebitamento simile. Le sinergie tra mercati sono poche, visto che le due società operano su mercati con connotazione geografica molto spinta. Semmai, se il mercato riconoscerà a Telefonica un minor rischio rispetto a Telecom Italia, il costo del capitale potrebbe diminuire e gli investimenti crescere un pochino.
L’operazione ha riacceso il dibattito sull’italianità della rete. Secondo lei ha un senso difenderla?
Assolutamente no. Gli spauracchi che si agitano sulla sicurezza e sull’occupazione sono tipici di un mondo che vuol conservare lo status quo e trova pretesti da dare in pasto al grande pubblico. È talmente ovvio che tutte le operazioni per difendere l’italianità che abbiamo fatto sino ad oggi – Alitalia in testa – non hanno comportato altro che il trasferimento di risorse dalla tasche dei cittadini a quelle di qualche gruppo privato.
Ma perché ci ricaschiamo ogni volta, allora?
Ci deve essere un errore di comunicazione o di informazione. Nel caso specifico non cambia nulla sulla sicurezza delle rete, checché ne dica il Copasir. Voglio dire che se la rete era già poco sicura, lo rimane. E poi mi pare che la memoria sia corta: problemi di sicurezza ce ne sono stati durante la gestione dell’italianissimo Marco Tronchetti Provera.
Altro tema sotto i riflettori è lo scorporo della rete. Ha ancora un senso strategico e/o economico?
Lo scorporo non ha un senso strategico per TI perché è l’asset non replicabile più importante che possiede, anche se ovviamente tutto dipende dal “prezzo”: se venisse “strapagata” la rete, ovvio che gli azionisti ci guadagnerebbero. Potrebbe avere un senso economico per il Paese: senza separazione vi è il rischio che l’operatore integrato verticalmente metta in atto comportamenti anti-competitivi nei confronti dei rivali a valle; cosa puntualmente sanzionata dall’Antitrust. Con la separazione invece questi comportamenti verrebbero meno. Detto questo, i problemi che vedo legati allo scorporo superano i vantaggi.
In che senso?
Bisogna chiedersi chi stabilisce il prezzo? A chi spetta il controllo della rete separata? Sotto quali regole di accesso? Domande regolarmente eluse nel dibattito attuale, perché tacciate di mera “tecnicalità”, ma talmente importanti da non poter avviare alcuna discussione altrimenti. Uno scorporo così vago non lo considero altro che un modo di ripianare debiti privati con risorse pubbliche – nel caso il pubblico si presti a partecipare in qualche modo, lasciando eventualmente il controllo effettivo della rete nelle mani di TI – senza risolvere alcun collo di bottiglia. Le operazioni di scorporo sono delicatissime e hanno bisogno di tempo, esperienza e risorse di altissima qualità. Non mi sembra ci siano i presupposti nel nostro paese.
I sindacati chiedono di non fare lo spin off, ma di puntare ad un aumento di capitale, anche riservato a Cdp. La proposta può avere un senso?
Non credo che la Cdp abbia le competenze per gestire una rete nazionale. E mi si perdoni il leit motiv: Cdp è esattamente il canale che serve alla classe politica affamata di spazi da occupare e nomine da controllare.
È partito l’allarme occupazione. C’è il rischio di perdere posti di lavoro?
Dipende dagli investimenti: se questi salgono, anche l’occupazione ne potrà risentire positivamente. Non mi aspetto molto da Telefonica, ma sono leggermente ottimista. Non posso dimenticare che gli investimenti di Telecom negli ultimi anni son stati sotto la media europea, quindi spero che si possa invertire questo andamento. Basta prendere statistiche “neutrali”, e non di parte: secondo la Digital Agenda Scoreboard 2013 della Commissione Europea, l’Italia è ultima come rapporto Capex/ricavi tra i 18 paesi analizzati (12,2%, la metà del Regno Unito ndr). Siamo anche ultimi come copertura della Nga e sempre nella parte molto bassa della classifica per la penetrazione della banda larga. Solo nel mobile ce la caviamo bene.
Governo e Parlamento stanno lavorando – rispettivamente – alla golden power e alla revisione della legge sull’Opa. La strategia scelta per stoppare Telefonica la convince?
La legge sull’Opa andrebbe cambiata, a prescindere dall’operazione Telefonica. Sulla golden power il mio giudizio è negativo. L’interferenza politica è una delle cause dei nostri mali. Ma mette tutti d’accordo: capitalisti indebitati che non rischiano di proprio, sindacati che proteggono le proprie posizioni, il grande pubblico male informato che cerca rassicurazioni. Arriva la politica che fa da deus ex machina e salva l’italianità Un copione già visto. La golden power, dunque, non fa altro che guadagnare del tempo per cercare di trovare anche questa volta la “soluzione di sistema”.
→ ottobre 1, 2013
di Marco Onado
Sono in molti a stupirsi del passaggio di Telecom Italia sotto il controllo di Teléfonica. Ma i fatti di oggi sono la conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti tra il 1997 e il 2007. Ripercorriamo le tappe di una storia in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.
UN FINALE GIÀ SCRITTO
La notizia che Telecom Italia è destinata a passare sotto il controllo della spagnola Teléfonica, ha avviato la pratica su larga scala di molti sport nazionali da parte di commentatori e politici, con una predilezione particolare per la disciplina detta “cadere dal pero”. Come è possibile che uno straniero controlli un settore vitale come la telefonia? Come è possibile che ciò accada solo in Italia? Come è possibile che gli spagnoli possano acquisire il controllo a un prezzo da saldo e comunque a un prezzo per azione superiore a quello di mercato, dunque in danno degli investitori piccoli e grandi?
Domande di puro buon senso, che peraltro suonano assai stonate, perché i fatti di oggi sono la pura conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti rispettivamente nel 1997 (anno della privatizzazione), nel 1999 (Opa di Roberto Colaninno e soci), nel 2001 (acquisizione senza Opa da parte di Marco Tronchetti Provera) e nel 2007 (acquisizione del controllo da parte di Telco, costituita da banche italiane e da Telefonica, sempre con distinti saluti all’Opa).
I primi tre passaggi sono stati spiegati e documentati con grande chiarezza in un libro di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons di oltre dieci anni fa, che dimostra che la società era stata messa su una china da cui sarebbe stato molto difficile risalire. (1) Dunque, non ci sono domande da proporre con sdegno nei talk-show, facendo la boccuccia di chi è esterrefatto perché chi viene interrogato sull’argomento ha il dovere di conoscere i fatti che contano. Per chi invece ha il diritto di ignorarle o di averle dimenticate, vale la pena di ripercorrere le tappe dolorose della storia privata di Telecom Italia e in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.
LA MANCANZA DI UN NUCLEO STABILE DI AZIONISTI
La “madre di tutte le privatizzazioni” (l’operazione fu fondamentale per consentire al Governo Ciampi di ottenere in extremis l’ammissione dell’Italia all’euro fin dalla fase iniziale) non poté disporre di una rete di protezione costituita (come avrebbero voluto Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi) da azionisti disposti a investire nel lungo termine. Il gruppo Fiat, che attraverso l’Ifil aveva acquisito lo 0,6 per cento del capitale (“e capirai” avrebbe detto Alberto Sordi) non solo pretese di comandare, ma dimostrò subito di essere interessata al potere per il potere, piuttosto che alle strategie industriali. Le due imprese del settore (At&t e Unisource) che erano state selezionate dal Tesoro vennero immediatamente estromesse e una persona certo non ostile al gruppo torinese come Antonio Maccanico dovette ammettere: «ci fu una certa inconsistenza del nucleo stabile sulle scelte manageriali, forse dovuta al fatto che loro non conoscevano il settore».
La conseguenza di un’attenzione rivolta solo agli aspetti finanziari è stata che i nuovi acquirenti (così come quelli che si profileranno all’orizzonte dopo) vedevano nel colosso delle telecomunicazioni la grande redditività data dalla posizione monopolistica fino ad allora goduta. Nel 1998, cioè all’indomani della privatizzazione, la società era la quarta in Italia per fatturato e la prima per valore aggiunto; aveva un elevata redditività (l’utile superava l’11 per cento del fatturato) e praticamente non aveva debiti netti: gli oneri finanziari netti non raggiungevano il 2 per cento del fatturato. (2) Le risorse finanziarie generate dalla gestione (calcolate come somma di utile e di ammortamenti) ammontavano a circa 7,5 milioni di euro, quasi la metà del capitale netto. Un gigante, peraltro, con una forte capacità innovativa impegnata in una vigorosa concorrenza con Omnitel nel campo della nascente telefonia mobile. Dunque, tutt’altro che un passivo sfruttatore di rendite monopolistiche, anche se le vecchie strutture tariffarie e la dinamica assolutamente inattesa dei nuovi mercati consentiva di considerare la società come un tipico esempio di quello che, nei manuali di finanza, si definisce una cash cow. Ma gli azionisti del “nocciolino duro” riescono a litigare anche intorno a una torta così grande e dimostrano chiaramente di non avere una vera strategia industriale di lungo periodo. Logico che qualcuno cominci a pensare di prendere il loro posto.
NUOVI SCALATORI E VECCHIE SCATOLE CINESI
Le incertezze e i litigi dei primi mesi della vita di Telecom alimentano, secondo Oddo e Pons, piani di scalata più o meno audaci fin dai primi giorni dopo la privatizzazione. Sarà Roberto Colaninno, che ha raccolto in una finanziaria lussemburghese un gruppo assai variegato di soci, a lanciare nei primi mesi del 1999 l’offerta pubblica per acquisire il controllo della società. Colaninno scende in campo perché ha ottenuto un sostegno incondizionato di alcune grandi banche internazionali che gli mettono a disposizione un assegno in bianco di 60 miliardi di euro, quanto è necessario per dare il via all’operazione. Ma la strada è lunga e vi sono molte battaglie da combattere: quella decisiva è annunciata per l’assemblea straordinaria convocata dal consiglio di amministrazione, che ha un nuovo presidente in Franco Bernabé. Questi cerca disperatamente di evitare una soluzione che può portare (come di fatto avvenne) a rovesciare sulla società la montagna di debiti che hanno consentito la scalata. Il nuovo presidente ha in mente una strategia a due stadi: una difesa da Colaninno attraverso il lancio di un’Opa su Tim e un’alleanza a condizioni paritarie con Deutsche Telekom come premessa di una strategia industriale ambiziosa e internazionale. Entrambe, soprattutto la seconda, costruite frettolosamente e non prive di aspetti critici (Telekom è pubblica e ci sono forti resistenze da parte della politica tedesca sia alla privatizzazione, sia all’alleanza con italiani).
Ma Bernabé non riesce neppure a fare la prima mossa perché l’assemblea straordinaria va deserta: non si presentano né il Tesoro né la Banca d’Italia, in nome di una non meglio precisata “neutralità” imposta dal Governo, allora presieduto da Massimo D’Alema. Mario Draghi, che invece era favorevole a partecipare e valutare con l’assistenza di un advisor l’opzione più favorevole per gli azionisti, chiede e ottiene un ordine scritto. Esattamente come avviene nel grande film di Stanley Kubrick, Orizzonti di gloria, quando il generale fanatico ordina all’artiglieria di sparare sui propri soldati, colpevoli di essersi ritirati dopo un assalto impossibile.
Il successo dell’Opa comporta la vendita di Omnitel a Vodafone: un’operazione necessaria sia sul piano finanziario per Olivetti, sia per evitare la formazione di un monopolista nel campo della telefonia mobile. E così fra i costi di questa scalata bisogna anche mettere l’uscita dal controllo nazionale della società più dinamica degli anni Novanta.
CAMBI DI CONTROLLO SENZA OPA: BASTA CAMBIARE L’ETICHETTA
Telecom passa di mano con un’Opa, cioè con un’operazione di mercato, ma il controllo della nuova Telecom viene esercitato con le tradizionali armi del capitalismo italiano di relazioni: una bella catena di società a piramide. Bernabé lo aveva detto a chiare lettere ai dipendenti (nonché al governo): “Il passaggio di controllo di Telecom a valle dell’Opa può avvenire su una qualsiasi delle scatole a monte delle quali si esercita il controllo di Telecom”. (3) Un problema che Marcello Messori, in qualità di esperto di Palazzo Chigi, aveva tempestivamente sollevato, in un appunto riservato rimasto sempre senza risposta.
Detto e fatto. A fine luglio 2001, a pochi mesi dalla nuova vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, Marco Tronchetti Provera compra per 4,175 euro le azioni Telecom possedute da Bell (contro un prezzo di borsa di 2,25). E poiché c’è una piramide societaria bell’e pronta, basta acquisire Bell che controlla Olivetti con una quota inferiore al 30 per cento per disporre di Telecom senza bisogno di lanciare l’Opa.
Tronchetti annuncia di avere una visione industriale e di voler accorciare la catena di controllo e si guadagna la fiducia degli investitori (il mercato continua a detenere oltre due terzi delle azioni della società) anche perché la pur breve gestione Colaninno non era stata esente da operazioni assai controverse: basti citare la fusione Pagine gialle – Tin.it di cui è bene ricordare i tratti essenziali. Al momento dell’annuncio, primavera 2000, quindi punto più alto della bolla azionaria, la Seat arriva a capitalizzare in Borsa 72 miliardi, un valore superiore a quello di Eni ed Enel, destinati a scendere a 8 nel giro di un anno e mezzo. Eppure Colaninno impegna Telecom in un’operazione che costa alla società un deflusso di 6,7 miliardi di euro che, essendo transitato nel percorso Torino-Torino per il Lussemburgo (la linea della geografia del nuovo capitalismo non è precisamente retta), non ha lasciato nomi e cognomi dei destinatari finali. (4)
Quando arriva Tronchetti Provera, non solo Telecom è l’esatto contrario di quello che Prodi e Ciampi avevano sognato dal punto di vista del controllo societario, ma i suoi punti di forza sono in gran parte scomparsi, soprattutto dal punto di vista finanziario: i debiti rappresentano ormai il doppio del patrimonio e peseranno come il piombo nelle ali del gruppo. Senza entrare nel merito delle vicende che non è possibile descrivere in questa sede, si può dire che il problema del debito è stato il principale vincolo della gestione dell’ultimo decennio e, combinandosi con una redditività di base fatalmente in declino, ha visto scendere continuamente la redditività di base.
Quello che conta è che il passaggio da un controllore all’altro avviene sempre attraverso le scatole cinesi, secondo la strada tracciata dai “capitani coraggiosi”: prima da Colaninno a Tronchetti (che compra a un alto prezzo nel 2001) e poi nel 2007 da Tronchetti alla solita cordata “di sistema” composta dalle solite banche affiancate, per la prima volta, da un partner industriale straniero: Teléfonica. La società ha bisogno come il pane di capitali freschi, ma i mezzi finanziari che si trovano servono solo a pagare i soci che abbandonano: Colaninno e i suoi amici (gli unici che guadagnano) nel 2001; Tronchetti nel 2007, i soci di Telco probabilmente domani.
IL GIGANTE DELLE TELECOMUNICAZIONI HA I PIEDI DI ARGILLA. E NON È L’UNICO
Dunque, era tutto scritto nel libro di Oddo e Pons uscito oltre dieci anni fa. Quello che i due giornalisti non potevano immaginare era che i disegni industriali di Tronchetti prima e dei soci riuniti in Telco poi, non sarebbero mai stati realizzati per una serie di motivi che meritano un nuovo libro. Né sarebbero stati ascoltati gli inviti degli ultimi anni a rafforzare la base di capitale. L’effetto netto è stato un drammatico declino della redditività di quello che fu il gigante delle telecomunicazioni. Ma ancora una volta, va detto alle anime belle che oggi si stupiscono, che le cattive notizie sullo stato di salute di Telecom non sono una novità: il bilancio 2011 si è chiuso con una perdita di oltre 4 miliardi, destinata a essere seguita dalla perdita di 1,6 miliardi nel 2012.
Nel grafico che segue sono sintetizzati i principali indicatori della drammaticità della situazione e il declino dal 2007 in poi: il peso del capitale sul totale attivo rimane intorno al 30 per cento, ma solo perché è stato drasticamente ridotto il denominatore, dunque perché gli investimenti sono stati tenuti al minimo e sono state dismesse attività (il totale attivo diminuisce del 12 per cento nel periodo). Ma il fatto importante è che la redditività di base cala drammaticamente perché il vecchio business non può dare più i margini di una volta. La cash cow ha esaurito il latte: in soli sei anni il rapporto fra margine netto (ebit = earnings before interest and taxes) e ricavi totali crolla dal 19 al 6,5 per cento. Ovviamente a questo punto, non ci sono più risorse per pagare gli interessi. Se nel 2007 questi ultimi (al netto dei proventi finanziari) assorbivano più di un terzo del margine, oggi non sono più sufficienti e portano il bilancio in rosso.
Giovedì prossimo Bernabé uscirà per la seconda volta di scena e probabilmente si toglierà come nel 1999 qualche sassolino dalla scarpa con una lettera ai dipendenti (l’altra volta aveva facilmente previsto che con Colaninno non si sarebbe data stabilità azionaria alla società) ma fra le sue due dimissioni si è consumato un declino di Telecom che sarà ben difficile rovesciare, anche perché l’aumento in prospettiva del peso di Teléfonica non si sa quali vantaggi industriali porterà, mentre costringerà a cedere le partecipazioni sudamericane. Il che, a parte le conseguenze reddituali, farà di Telecom un’azienda esclusivamente domestica concentrata su un business vecchio. Allegria.
E tutto perché in quasi quindici anni di gestione da parte dei capitalisti privati italiani più o meno coraggiosi, i soldi sono serviti solo per pagare gli azionisti uscenti e quando si è scelto uno strumento di mercato, cioè l’opa, i soldi erano rigorosamente degli altri, cioè presi a debito e subito scaricati sulle spalle della società.
E si badi che la storia di Telecom è la storia di un intero settore, quello dei servizi pubblici, che è stato oggetto di processi di privatizzazione sia nelle aziende di respiro nazionale, sia nelle aziende che gestiscono servizi locali. I dati Mediobanca sulle principali imprese italiane ci dicono che negli ultimi dieci anni, questo settore è stato un enorme dispensatore di dividendi, appunto una mucca da mungere. (5) Innanzitutto in valore assoluto sotto forma di dividendi incassati; come dimostra la linea blu del grafico che segue, il flusso ha superato in alcuni anni i 10 miliardi di euro. Ma se si deducono i capitali freschi immessi dagli azionisti (sotto forma di aumenti a pagamento e sovrapprezzi versati) per definire un aggregato definito un po’ rozzamente “dividendi netti” (linea rossa) il risultato cambia di poco, il che significa che il flusso si è diretto solo dalla società agli azionisti, mai in senso inverso. E infatti il totale dei dividendi del periodo ammonta a oltre 60 miliardi, quello dei capitali immessi a 5, meno di 12 volte.
Telecom, una triste storia di capitalismo italianoDOSSIER
01.10.13
Marco Onado
Sono in molti a stupirsi del passaggio di Telecom Italia sotto il controllo di Teléfonica. Ma i fatti di oggi sono la conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti tra il 1997 e il 2007. Ripercorriamo le tappe di una storia in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.
UN FINALE GIÀ SCRITTO
La notizia che Telecom Italia è destinata a passare sotto il controllo della spagnola Teléfonica, ha avviato la pratica su larga scala di molti sport nazionali da parte di commentatori e politici, con una predilezione particolare per la disciplina detta “cadere dal pero”. Come è possibile che uno straniero controlli un settore vitale come la telefonia? Come è possibile che ciò accada solo in Italia? Come è possibile che gli spagnoli possano acquisire il controllo a un prezzo da saldo e comunque a un prezzo per azione superiore a quello di mercato, dunque in danno degli investitori piccoli e grandi?
Domande di puro buon senso, che peraltro suonano assai stonate, perché i fatti di oggi sono la pura conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti rispettivamente nel 1997 (anno della privatizzazione), nel 1999 (Opa di Roberto Colaninno e soci), nel 2001 (acquisizione senza Opa da parte di Marco Tronchetti Provera) e nel 2007 (acquisizione del controllo da parte di Telco, costituita da banche italiane e da Telefonica, sempre con distinti saluti all’Opa).
I primi tre passaggi sono stati spiegati e documentati con grande chiarezza in un libro di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons di oltre dieci anni fa, che dimostra che la società era stata messa su una china da cui sarebbe stato molto difficile risalire. (1) Dunque, non ci sono domande da proporre con sdegno nei talk-show, facendo la boccuccia di chi è esterrefatto perché chi viene interrogato sull’argomento ha il dovere di conoscere i fatti che contano. Per chi invece ha il diritto di ignorarle o di averle dimenticate, vale la pena di ripercorrere le tappe dolorose della storia privata di Telecom Italia e in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.
LA MANCANZA DI UN NUCLEO STABILE DI AZIONISTI
La “madre di tutte le privatizzazioni” (l’operazione fu fondamentale per consentire al Governo Ciampi di ottenere in extremis l’ammissione dell’Italia all’euro fin dalla fase iniziale) non poté disporre di una rete di protezione costituita (come avrebbero voluto Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi) da azionisti disposti a investire nel lungo termine. Il gruppo Fiat, che attraverso l’Ifil aveva acquisito lo 0,6 per cento del capitale (“e capirai” avrebbe detto Alberto Sordi) non solo pretese di comandare, ma dimostrò subito di essere interessata al potere per il potere, piuttosto che alle strategie industriali. Le due imprese del settore (At&t e Unisource) che erano state selezionate dal Tesoro vennero immediatamente estromesse e una persona certo non ostile al gruppo torinese come Antonio Maccanico dovette ammettere: «ci fu una certa inconsistenza del nucleo stabile sulle scelte manageriali, forse dovuta al fatto che loro non conoscevano il settore».
La conseguenza di un’attenzione rivolta solo agli aspetti finanziari è stata che i nuovi acquirenti (così come quelli che si profileranno all’orizzonte dopo) vedevano nel colosso delle telecomunicazioni la grande redditività data dalla posizione monopolistica fino ad allora goduta. Nel 1998, cioè all’indomani della privatizzazione, la società era la quarta in Italia per fatturato e la prima per valore aggiunto; aveva un elevata redditività (l’utile superava l’11 per cento del fatturato) e praticamente non aveva debiti netti: gli oneri finanziari netti non raggiungevano il 2 per cento del fatturato. (2) Le risorse finanziarie generate dalla gestione (calcolate come somma di utile e di ammortamenti) ammontavano a circa 7,5 milioni di euro, quasi la metà del capitale netto. Un gigante, peraltro, con una forte capacità innovativa impegnata in una vigorosa concorrenza con Omnitel nel campo della nascente telefonia mobile. Dunque, tutt’altro che un passivo sfruttatore di rendite monopolistiche, anche se le vecchie strutture tariffarie e la dinamica assolutamente inattesa dei nuovi mercati consentiva di considerare la società come un tipico esempio di quello che, nei manuali di finanza, si definisce una cash cow. Ma gli azionisti del “nocciolino duro” riescono a litigare anche intorno a una torta così grande e dimostrano chiaramente di non avere una vera strategia industriale di lungo periodo. Logico che qualcuno cominci a pensare di prendere il loro posto.
NUOVI SCALATORI E VECCHIE SCATOLE CINESI
Le incertezze e i litigi dei primi mesi della vita di Telecom alimentano, secondo Oddo e Pons, piani di scalata più o meno audaci fin dai primi giorni dopo la privatizzazione. Sarà Roberto Colaninno, che ha raccolto in una finanziaria lussemburghese un gruppo assai variegato di soci, a lanciare nei primi mesi del 1999 l’offerta pubblica per acquisire il controllo della società. Colaninno scende in campo perché ha ottenuto un sostegno incondizionato di alcune grandi banche internazionali che gli mettono a disposizione un assegno in bianco di 60 miliardi di euro, quanto è necessario per dare il via all’operazione. Ma la strada è lunga e vi sono molte battaglie da combattere: quella decisiva è annunciata per l’assemblea straordinaria convocata dal consiglio di amministrazione, che ha un nuovo presidente in Franco Bernabé. Questi cerca disperatamente di evitare una soluzione che può portare (come di fatto avvenne) a rovesciare sulla società la montagna di debiti che hanno consentito la scalata. Il nuovo presidente ha in mente una strategia a due stadi: una difesa da Colaninno attraverso il lancio di un’Opa su Tim e un’alleanza a condizioni paritarie con Deutsche Telekom come premessa di una strategia industriale ambiziosa e internazionale. Entrambe, soprattutto la seconda, costruite frettolosamente e non prive di aspetti critici (Telekom è pubblica e ci sono forti resistenze da parte della politica tedesca sia alla privatizzazione, sia all’alleanza con italiani).
Ma Bernabé non riesce neppure a fare la prima mossa perché l’assemblea straordinaria va deserta: non si presentano né il Tesoro né la Banca d’Italia, in nome di una non meglio precisata “neutralità” imposta dal Governo, allora presieduto da Massimo D’Alema. Mario Draghi, che invece era favorevole a partecipare e valutare con l’assistenza di un advisor l’opzione più favorevole per gli azionisti, chiede e ottiene un ordine scritto. Esattamente come avviene nel grande film di Stanley Kubrick, Orizzonti di gloria, quando il generale fanatico ordina all’artiglieria di sparare sui propri soldati, colpevoli di essersi ritirati dopo un assalto impossibile.
Il successo dell’Opa comporta la vendita di Omnitel a Vodafone: un’operazione necessaria sia sul piano finanziario per Olivetti, sia per evitare la formazione di un monopolista nel campo della telefonia mobile. E così fra i costi di questa scalata bisogna anche mettere l’uscita dal controllo nazionale della società più dinamica degli anni Novanta.
CAMBI DI CONTROLLO SENZA OPA: BASTA CAMBIARE L’ETICHETTA
Telecom passa di mano con un’Opa, cioè con un’operazione di mercato, ma il controllo della nuova Telecom viene esercitato con le tradizionali armi del capitalismo italiano di relazioni: una bella catena di società a piramide. Bernabé lo aveva detto a chiare lettere ai dipendenti (nonché al governo): “Il passaggio di controllo di Telecom a valle dell’Opa può avvenire su una qualsiasi delle scatole a monte delle quali si esercita il controllo di Telecom”. (3) Un problema che Marcello Messori, in qualità di esperto di Palazzo Chigi, aveva tempestivamente sollevato, in un appunto riservato rimasto sempre senza risposta.
Detto e fatto. A fine luglio 2001, a pochi mesi dalla nuova vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, Marco Tronchetti Provera compra per 4,175 euro le azioni Telecom possedute da Bell (contro un prezzo di borsa di 2,25). E poiché c’è una piramide societaria bell’e pronta, basta acquisire Bell che controlla Olivetti con una quota inferiore al 30 per cento per disporre di Telecom senza bisogno di lanciare l’Opa.
Tronchetti annuncia di avere una visione industriale e di voler accorciare la catena di controllo e si guadagna la fiducia degli investitori (il mercato continua a detenere oltre due terzi delle azioni della società) anche perché la pur breve gestione Colaninno non era stata esente da operazioni assai controverse: basti citare la fusione Pagine gialle – Tin.it di cui è bene ricordare i tratti essenziali. Al momento dell’annuncio, primavera 2000, quindi punto più alto della bolla azionaria, la Seat arriva a capitalizzare in Borsa 72 miliardi, un valore superiore a quello di Eni ed Enel, destinati a scendere a 8 nel giro di un anno e mezzo. Eppure Colaninno impegna Telecom in un’operazione che costa alla società un deflusso di 6,7 miliardi di euro che, essendo transitato nel percorso Torino-Torino per il Lussemburgo (la linea della geografia del nuovo capitalismo non è precisamente retta), non ha lasciato nomi e cognomi dei destinatari finali. (4)
Quando arriva Tronchetti Provera, non solo Telecom è l’esatto contrario di quello che Prodi e Ciampi avevano sognato dal punto di vista del controllo societario, ma i suoi punti di forza sono in gran parte scomparsi, soprattutto dal punto di vista finanziario: i debiti rappresentano ormai il doppio del patrimonio e peseranno come il piombo nelle ali del gruppo. Senza entrare nel merito delle vicende che non è possibile descrivere in questa sede, si può dire che il problema del debito è stato il principale vincolo della gestione dell’ultimo decennio e, combinandosi con una redditività di base fatalmente in declino, ha visto scendere continuamente la redditività di base.
Quello che conta è che il passaggio da un controllore all’altro avviene sempre attraverso le scatole cinesi, secondo la strada tracciata dai “capitani coraggiosi”: prima da Colaninno a Tronchetti (che compra a un alto prezzo nel 2001) e poi nel 2007 da Tronchetti alla solita cordata “di sistema” composta dalle solite banche affiancate, per la prima volta, da un partner industriale straniero: Teléfonica. La società ha bisogno come il pane di capitali freschi, ma i mezzi finanziari che si trovano servono solo a pagare i soci che abbandonano: Colaninno e i suoi amici (gli unici che guadagnano) nel 2001; Tronchetti nel 2007, i soci di Telco probabilmente domani.
IL GIGANTE DELLE TELECOMUNICAZIONI HA I PIEDI DI ARGILLA. E NON È L’UNICO
Dunque, era tutto scritto nel libro di Oddo e Pons uscito oltre dieci anni fa. Quello che i due giornalisti non potevano immaginare era che i disegni industriali di Tronchetti prima e dei soci riuniti in Telco poi, non sarebbero mai stati realizzati per una serie di motivi che meritano un nuovo libro. Né sarebbero stati ascoltati gli inviti degli ultimi anni a rafforzare la base di capitale. L’effetto netto è stato un drammatico declino della redditività di quello che fu il gigante delle telecomunicazioni. Ma ancora una volta, va detto alle anime belle che oggi si stupiscono, che le cattive notizie sullo stato di salute di Telecom non sono una novità: il bilancio 2011 si è chiuso con una perdita di oltre 4 miliardi, destinata a essere seguita dalla perdita di 1,6 miliardi nel 2012.
Nel grafico che segue sono sintetizzati i principali indicatori della drammaticità della situazione e il declino dal 2007 in poi: il peso del capitale sul totale attivo rimane intorno al 30 per cento, ma solo perché è stato drasticamente ridotto il denominatore, dunque perché gli investimenti sono stati tenuti al minimo e sono state dismesse attività (il totale attivo diminuisce del 12 per cento nel periodo). Ma il fatto importante è che la redditività di base cala drammaticamente perché il vecchio business non può dare più i margini di una volta. La cash cow ha esaurito il latte: in soli sei anni il rapporto fra margine netto (ebit = earnings before interest and taxes) e ricavi totali crolla dal 19 al 6,5 per cento. Ovviamente a questo punto, non ci sono più risorse per pagare gli interessi. Se nel 2007 questi ultimi (al netto dei proventi finanziari) assorbivano più di un terzo del margine, oggi non sono più sufficienti e portano il bilancio in rosso.
Telecom1
Giovedì prossimo Bernabé uscirà per la seconda volta di scena e probabilmente si toglierà come nel 1999 qualche sassolino dalla scarpa con una lettera ai dipendenti (l’altra volta aveva facilmente previsto che con Colaninno non si sarebbe data stabilità azionaria alla società) ma fra le sue due dimissioni si è consumato un declino di Telecom che sarà ben difficile rovesciare, anche perché l’aumento in prospettiva del peso di Teléfonica non si sa quali vantaggi industriali porterà, mentre costringerà a cedere le partecipazioni sudamericane. Il che, a parte le conseguenze reddituali, farà di Telecom un’azienda esclusivamente domestica concentrata su un business vecchio. Allegria.
E tutto perché in quasi quindici anni di gestione da parte dei capitalisti privati italiani più o meno coraggiosi, i soldi sono serviti solo per pagare gli azionisti uscenti e quando si è scelto uno strumento di mercato, cioè l’opa, i soldi erano rigorosamente degli altri, cioè presi a debito e subito scaricati sulle spalle della società.
E si badi che la storia di Telecom è la storia di un intero settore, quello dei servizi pubblici, che è stato oggetto di processi di privatizzazione sia nelle aziende di respiro nazionale, sia nelle aziende che gestiscono servizi locali. I dati Mediobanca sulle principali imprese italiane ci dicono che negli ultimi dieci anni, questo settore è stato un enorme dispensatore di dividendi, appunto una mucca da mungere. (5) Innanzitutto in valore assoluto sotto forma di dividendi incassati; come dimostra la linea blu del grafico che segue, il flusso ha superato in alcuni anni i 10 miliardi di euro. Ma se si deducono i capitali freschi immessi dagli azionisti (sotto forma di aumenti a pagamento e sovrapprezzi versati) per definire un aggregato definito un po’ rozzamente “dividendi netti” (linea rossa) il risultato cambia di poco, il che significa che il flusso si è diretto solo dalla società agli azionisti, mai in senso inverso. E infatti il totale dei dividendi del periodo ammonta a oltre 60 miliardi, quello dei capitali immessi a 5, meno di 12 volte.
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L’unico dato in crescita è quindi il rapporto fra oneri finanziari e margine lordo (istogrammi del grafico) che passa dal 36 al 90 per cento. Ovviamente, Telecom pesa molto in questi dati, ma è evidente che le fragilità che hanno piegato quello che fu il colosso delle telecomunicazioni sono comuni a molte aziende del settore e dunque neppure un comparto come quello dei servizi pubblici, relativamente protetto dai venti della concorrenza internazionale può considerarsi esente da problemi. E la causa, alla fine, è sempre la stessa: le imprese interessano soprattutto se assicurano un flusso di dividendi, possibilmente facile e i capitali servono a comprare il controllo da altri capitalisti, non a irrobustire patrimonialmente le società.
Forse, per risolvere i problemi nazionali, anziché partire dalla riforma del lavoro, bisognerebbe cominciare dalla riforma del capitale.
(1) Giuseppe Oddo e Giovanni Pons, L’affare Telecom. Il caso politico-finanziario più clamoroso della seconda Repubblica, Sperling & Kupfer, Milano, 2002.
(2) I dati sulla società sono tratti dalla pubblicazione Mediobanca Le principali società italiane, disponibile sul sito www.mbres.it.
(3) Si veda il libro di Oddo e Pons, pag. 282.
(4) Pag. 201 del libro di Oddo e Pons.
(5) Mediobanca, Dati cumulativi di società italiane, Milano, agosto 2013. Disponibile al sito www.mbres.it. Va ricordato che i dividendi indicati per ciascun anno sono quelli deliberati (quindi pagati nell’anno successivo