→ maggio 3, 2009
E’ ormai scontato che il mondo finanziario dopo la crisi avrà regole più restrittive e regolatori più intrusivi. Con meno regolatori, meno specializzati e dotati di più poteri si pensa che sarà più difficile per gli operatori fare arbitraggio regolatorio scegliendosi da chi farsi controllare, ed eventualmente “catturarlo”. Ma anche i regolatori hanno la loro agenda, dove la priorità sembra essere quella di non farsi “catturare” dai loro omologhi. Così in Europa incontrano difficoltà l’istituzione di una vigilanza unica e l’adozione di procedure unificate per gli interventi di risanamento.
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→ ottobre 31, 2008
L’allarme della Banca d’Inghilterra
di Massimo Mucchetti
Il McKinsey Global Institute li aveva eletti nell’ottobre 2007 tra i nuovi power brokers del capitalismo, assieme ai fondi sovrani, alle banche centrali dei Paesi orientali e ai fondi di private equity.
Adesso, per la Banca d’Inghilterra gli hedge funds rappresentano la mina che insidia il sistema finanziario nonostante la rete di protezione distesa dai governi attorno alle banche. Questi fondi si sono proposti per anni come i più raffinati investitori, capaci di scommettere al rialzo e al ribasso per premiare i meritevoli incompresi e punire i palloni gonfiati.
Assicuravano, si diceva, l’igiene dei mercati, con la puntuale contestazione dei giochi di potere dei top manager e degli azionisti di controllo. Eppure, anch’essi avevano un limite serio – il ricorso eccessivo al debito – e gravi vizi costituzionali – l’opacità dei comportamenti, l’allergia alla regolazione che consentiva loro anche la collusione con i gerenti delle imprese nelle fasi di rialzo. E così, proprio pochi giorni fa, i supponenti hedge devono incassare l’allarme della banca centrale inglese che, nel suo Financial Stability Report di ottobre, scrive: «Mentre i primi segnali di stabilizzazione nella raccolta bancaria sono incoraggianti, restano ancora rischi nel più ampio sistema finanziario.
Uno di questi è che gli investitori indebitati, come gli hedge funds, possano essere costretti a liquidare i propri attivi a causa delle condizioni più restrittive del credito». Del resto, il caso Volkswagen li ha messi addirittura in ridicolo. Convinti di poter guadagnare facilmente vendendo allo scoperto e a termine i titoli della casa di Wolfsburg sull’onda lunga dei ribassi nel settore automobilistico, gli hedge hanno avuto la sorpresa di non trovarne più al momento delle ricoperture: nel frattempo, infatti, la Porsche aveva rastrellato in silenzio ben più solide opzioni per salire al 75% del capitale, una quota che, sommata alla partecipazione del Land della Bassa Sassonia, riduceva al lumicino i titoli disponibili per la compravendita.
Al dunque, per onorare i contratti, gli hedge hanno dovuto comprare a prezzi irreali perdendo, stima il Financial Times, 20-30 miliardi di euro. Wendelin Wiedeking, il leader della Porsche, era stato censurato due anni fa dal quotidiano britannico. Facendo propria l’opinione degli hedge funds della City, la Lex column avrebbe preferito la redistribuzione della liquidità agli azionisti anziché il reinvestimento in Volkswagen inseguendo le ambizioni manifatturiere degli storici azionisti di riferimento Porsche e Piëch. Alla prova dei fatti Wiedeking e i suoi soci si sono rivelati industriali forti e finanzieri assai più brillanti dei rapaci cercatori del ritorno a breve termine, se è vero che, servendo gli hedge con una frazione dei titoli rastrellati, la Porsche ha già guadagnato oltre 5 miliardi.
Ironia della storia. La liquidazione degli hedge funds – non di tutti, ovviamente, ma di molti – è resa impellente dalle richieste di riscatto dei sottoscrittori: persone molto ricche, banche, fondi pensione, gestori di patrimoni, fondazioni, fondi sovrani che, di questi tempi, intendono riprendere il controllo diretto sul loro denaro. Una tendenza, questa, incoraggiata dalle performance negative se è vero che, secondo l’Hedge Fund Research, la perdita media sfiora il 20% negli ultimi 12 mesi e, secondo l’Eurekahedge Hedge Fund Index, attivo dal 2000, nessun mese ha deluso come l’ultimo settembre nel quale il settore ha lasciato sul campo 90 miliardi di dollari. D’altra parte, come segnalava McKinsey, le nuove sottoscrizioni nel primo trimestre 2008 si erano già ridotte a soli 16 miliardi su scala mondiale contro i 60 dello stesso periodo del 2007. Poiché dagli hedge non si può uscire a piacimento come dai fondi comuni d’investimento ma solo nei periodi prestabiliti di redemption, per lo più concentrati a fine d’anno, ecco spiegata la valanga di vendite che, aggravata dalla rivalutazione dello yen, ha determinato l’autunno nero delle Borse mondiali.
Annota la Banca d’Inghilterra: «Il bisogno di liquidità degli hedge funds può aiutare a spiegare le vendite dei titoli più liquidi come le azioni dei Paesi sviluppati ed emergenti, le cui quotazioni sono drasticamente cadute in settembre e ottobre». I valori in gioco sono ormai imponenti.
L’«industria» degli hedge funds mosse il primo passo, con una dotazione di 100 mila dollari, nel 1949 a opera di un sociologo americano di origine australiana, Alfred Winsolw Jones, che aveva avuto anche esperienze nella diplomazia e nel giornalismo. Riuniti 99 investitori in un fondo con quote non trasferibili come quelle dei fondi comuni, e dunque libero dalle limitazioni dell’Investment Company Act del 1940, Jones comincia a comprare a debito i titoli giudicati buoni e a vendere allo scoperto quelli cattivi così da compensare i rischi impliciti nelle due pratiche. Nei primi 10 anni fa meglio, in ragione dell’87%, del miglior fondo comune dell’epoca, il Dreyfus Fund. Il suo modello ispira campioni della finanza come Warren Buffett e George Soros.
Ma dovranno passare quarant’anni prima che gli hedge funds possano dilagare, favoriti dalla deregulation e dai bassi tassi d’interesse. A fine 2007, secondo McKinsey, ne risultano all’opera ben 7 mila con un capitale aggregato di 1.875 miliardi di dollari, una somma cinquanta volte più grande di quella amministrata nel 1990. È la base sulla quale, stressando la lezione di Jones, si costruisce un castello di debiti che eleva a 5 mila miliardi la potenza di fuoco dei nuovi arbitri della finanza mondiale, pronti a scommettere su tutto: indici, azioni, bond, reddito fisso, derivati, operazioni finanziarie di ogni genere. Formano, questi arbitri, una élite piuttosto ristretta se si pensa che il 71% dei capitali gestiti è concentrato nei primi 100 fondi, alcuni dei quali sono controllati da grandi banche, come Highbridge Capital Management che fa capo a JP Morgan.
Questo rapporto è cruciale al di là delle cointeressenze nel capitale: sono le banche a finanziare la leva degli hedge e le investment banks, le americane in particolare, a curarne le operazioni dietro congrue commissioni. In questo modo, gli hedge funds, spesso basati in paradisi fiscali, diventano banche d’investimento surrettizie, che si sottraggono deliberatamente ai controlli riservati alle banche vere e proprie, ai fondi pensione e agli stessi fondi comuni. E lo fanno con arroganza se ancora alla fine di settembre il Renaissance Technologies, l’hedge newyorkese guidato da James Simons, cerca di indurre la Securities Exchange Commission a rivedere la direttiva che consente al pubblico di conoscere le posizioni allo scoperto, posizioni che i fondi normali non possono prendere, con la seguente minaccia: «Gli investitori istituzionali potrebbero alterare il loro trading per evitare di dare notizie al pubblico».
La fratellanza siamese con le banche ora si ritorce contro. Ormai le garanzie che gli hedge funds devono fornire per ottenere credito dalle banche, gelose della propria residua liquidità, per reinvestire nel reddito fisso sono raddoppiate dall’inizio della crisi e addirittura quintuplicate se l’investimento si orienta verso le asset-backed-securities, le obbligazioni strutturate, rappresentative di altri titoli, mutui o prestiti.
E per i Cdo (Collateralizated debt obligation) i rubinetti sono chiusi del tutto. Ray Dalio, che guida il Bridgewater Associates, un hedge del Connecticut con attivi per 150 miliardi di dollari, ha ammesso davanti ai suoi clienti che il mondo sta entrando in una lunga depressione per rientrare dal debito che non potrà essere assai poco mitigata dalla riduzione al minimo dei tassi d’interesse: «Siamo dentro un ciclo di sofferenza pluriennale e il grado della sofferenza dipenderà dalle decisioni della politica». Sia pure con 10 anni di ritardo, la lezione del fallimento del Long Term Capital Management, l’hedge dei premi Nobel il cui improvviso fallimento mise per qualche settimana in pericolo la finanza mondiale, comincia a generare il suo effetto più importante: un bagno d’umiltà.
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