di Alberto Mingardi
In nome dell’acqua bene comune, viene sprecato ogni anno un terzo delle risorse idriche captate. Se si parte da questo dato di fatto, è difficile leggere nella vasta mobilitazione contro “l’acqua ai privati” altro che un tic ideologico.
Con il sì del Senato al decreto Ronchi “salva infrazioni comunitarie”, a partire dal 2011 i servizi pubblici locali dovranno in via ordinaria essere affidati tramite gara. Non è prevista alcuna “privatizzazione dell’acqua”: il tentativo del legislatore è semplicemente quello di razionalizzare la fornitura del servizio. E’ noto quali siano, perlomeno sulla carta, le virtù della gara rispetto all’affidamento “in house”: in primis, una maggiore accountability e meno conflitti di interessi per le Amministrazioni. Quello idrico è un ciclo chiuso:quanti si aggiudicheranno il servizio, si impegneranno a raccogliere l’acqua, renderla potabile, portarla ai rubinetti e smaltirla dopo averla depurata. La gara serve per rendere contendibile un monopolio tecnico, rispetto al quale l’ipotesi di replicare l’infrastruttura è poco praticabile. La parte in commedia assegnata ai privati è fare profitto sulla riduzione dello spreco, ponendo in essere investimenti che il pubblico non potrebbe permettersi o non saprebbe selezionare, per rendere più solide le reti e assicurando una gestione più lineare e imprenditoriale.
Che la riforma dei servizi locali sia andata a segno, è un merito non da poco del governo. Rispetto ai tentativi precedenti, però, bisogna anche segnalare che l’articolato di legge è meno netto sul tema dell’in house. Il ddl Lanzillotta (nella sua prima versione) avrebbe costretto gli enti locali a rimuovere gli impedimenti allo svolgimento delle gare. Con il decreto Ronchi, quest’obbligo non è contemplato e l’affidamento diretto è ancora ammesso sia pure in via “straordinaria” (in presenza di esigenze ambientali o sociali variamente declinabili), e previo parere dell’Antitrust.
L’altro nodo da sciogliere attiene il fronte della regolazione, sul quale non si segnala nulla di nuovo. Sorveglianza e valutazioni tecniche restano in capo ad una Commissione presso il Ministero dell’Ambiente, e alle Autorità di ambito territoriale ottimale. L’idea di un regolatore indipendente (o dell’attribuzione di funzioni specifiche all’Agcm, oppure delle competenze su acqua e rifiuti all’Autorità per l’Energia) per ora non è neppure sulla carta, ma è evidente che se la liberalizzazione deve implicare la “de-politicizzazione” un passo in quella direzione è auspicabile. Il rischio è altrimenti quello di creare delle nuove zone d’ombra fra privato e pubblico, che assieme legittimerebbero i peggiori sospetti e vedrebbero le imprese giocare un ruolo residuale, in buona sostanza finendo per assomigliare a una “burocrazia meno onerosa”. Si perderebbe così parte dei benefici dinamici della concorrenza, quelli legati all’applicazione della creatività imprenditoriale ad un certo settore – e quindi alle innovazioni nella fornitura di un servizio.
Per loro natura, le gare sono strumenti molto imperfetti per sostenere lo sviluppo di questo genere di competizione. Tuttavia, sono l’unica arma attualmente a nostra disposizione, ed è comunque incoraggiante che finalmente il Parlamento abbia cominciato un percorso. Ora si aprono altre partite, persino più vischiose, a cominciare da quelle per il controllo delle aziende municipalizzate quotate di cui dal 2015 il pubblico dovrà possedere meno di un terzo. Sempre che non si continui con la prassi dei rinvii, come verranno scelti e chi saranno i nuovi soci è una questione cruciale, e sarà la cartina di tornasole sia della capacità dei territori di adattarsi alle logiche di mercato, sia della volontà della politica di mollare la presa. Purtroppo le polemiche di questi giorni ci dicono che restiamo liberalizzatori riluttanti, e ci sfugge la lezione più importante. Cioè che è proprio perché si tratta di servizi essenziali, come il pane, che è meglio fare assegnamento sul mercato, che sulla benevolenza del fornaio o del politico.
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